Il presidente dell’Istituto Bruno Leoni, Nicola Rossi, lamenta l’ambiguità lessicale alla base del tentativo di inserimento in Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio. Nel testo del ddl costituzionale che dovrà/dovrebbe regolare la materia compare infatti l’ambigua espressione “equilibrio tra le entrate e le spese” o il generico “equilibrio di bilancio”, in luogo del ben più cogente “pareggio di bilancio”. La formulazione di “equilibrio” suggerirebbe infatti anche il mantenimento dell’incidenza delle entrate sulle spese, in ipotesi di deficit preesistente. Ma il problema non è solo quello.
Anche il concetto di “pareggio di bilancio”, che si ritrova nell’ormai celebre “fiscal compact” dell’Eurozona, con quel deficit strutturale (cioè al netto del ciclo economico) che non deve eccedere lo 0,5 per cento del Pil, è soggetto ad equilibri multipli. Il pareggio di bilancio può avvenire con spese ed entrate pari al 30 per cento del Pil, ma anche al 40, o al 50 e così via. Se un paese riesce a conseguire elevata efficienza della spesa pubblica (è il caso, si direbbe, degli scandinavi), anche un pareggio di bilancio ottenuto con spese ed entrate pari al 50 per cento del Pil non nuoce alla produttività totale dei fattori ed alla competitività di quel sistema-paese. Se, per contro, un paese ha una spesa pubblica generalmente di pessima qualità (come l’Italia, ad esempio), ecco che un “pareggio di bilancio” posto al 50% del Pil per entrate e spese è il passaporto sicuro per la rovina, soprattutto entro una unione valutaria (ma anche fuori, a dire il vero).
E’ vero che la proposta di Nicola Rossi prevedeva anche un tetto massimo alla spesa, ma questo causerebbe altri problemi. Ad esempio, il rischio di imprimere all’economia andamenti pro-ciclici se prima della costituzionalizzazione del principio del pareggio non si provvede ad una titanica riqualificazione (soprattutto di tipo culturale) della spesa pubblica. Oppure ai soliti aggiramenti al tetto percentuale di spesa, magari convocando una bella commissione che aumenti la dimensione del Pil con un tratto di penna, per poter spendere di più.
Il principio del pareggio di bilancio è un costrutto umano. E come abbiamo già osservato in passato, non c’è alcun costrutto umano che gli umani non possano demolire. Soprattutto in un paese bizantino come l’Italia. Vedasi, ad imperituro esempio, la sciagurata disapplicazione (per opera della Corte costituzionale) dell’articolo 81 della Costituzione, di cui Rossi ricorda la vicenda. Anche quello fu un caso esemplare di prodotto culturale, o di zeitgeist. Se riusciremo a produrre una consapevolezza diffusa in senso della “sacralità” del pareggio di bilancio, senza deroghe, e della riduzione dell’intermediazione dello stato nell’economia (oppure a conseguire elevata performance della spesa pubblica), avremo salvato l’anima. Ma oggi è lecito dubitare dell’esistenza di un nuovo idem sentire che vada in quella direzione.