Sul Foglio di oggi, gli economisti Ernesto Felli e Giovanni Tria denunciano che la recessione in cui l’Europa sta affondando ogni settimana di più è figlia di “un errore di impostazione della strategia di consolidamento fiscale. Un errore europeo e, di conseguenza, un errore imposto all’Italia”. Deo gratias, qualcuno che lo dice.
Tra le altre cose prive di senso, in questa Eurozona tossica, Felli e Tria indicano l’aver accettato il pareggio di bilancio al 2013, “prendendo la strada della deflazione e quindi ignorando i problemi di crescita”, oltre ad aver accettato la strategia del Fiscal compact. Di questo anche qui si è scritto, più e più volte, quindi inutile ritornarvi. Il Fiscal compact è l’ansiolitico-placebo da somministrare ai tedeschi per ottenere il via libera ad azioni indirette della Bce, che purtroppo stanno esaurendo i propri effetti e che presto rischiano di evidenziare in modo drammatico che siamo tornati a secco. Questa è la drammatica bancarotta del Berlin Consensus, come indicano anche Felli e Tria.
Cioè di un gigantesco circolo vizioso, in cui strette fiscali causano recessione, che causa aumento del premio al rischio, che causa nuovo deficit, che scatena accuse di lassismo. Come diciamo da tempo, pensare di promuovere una strategia di taglio di spese e di tasse, in questo contesto, è una pura illusione. Perché il problema sta a monte. E’ anche molto interessante, oltre che costruttivamente provocatorio, il fatto che gli autori dell’articolo esprimano scetticismo circa la possibilità che riforme realmente liberiste potrebbero sollevarci da questo abisso. Quelle servono, sia chiaro: ma servono per quando tornerà la crescita, non per indurre la crescita.
Bene il concetto di pareggio di bilancio costituzionalizzato (pur se con tutti i limiti di cui abbiamo dato conto), perché si tratta comunque di un saldo strutturale e non ciclico anche se pare che in molti, tra editorialisti ed economisti, paiono non avere ben chiara la distinzione. Naturalmente, anche questo strumento necessiterebbe di modalità di applicazione strettamente regolamentate (ed altrettanto aggirabili), come potrebbe essere il calcolo affidato in modo “invasivo” ad Eurostat.
Ma perché avrebbe poco senso, oggi, perseguire una strategia di taglio di spese e contestuale riduzione delle tasse? Più che poco senso, la manovra si scontrerebbe con la più generale congiuntura. Facciamo questo “esperimento del pensiero”: immaginiamo di licenziare sui due piedi mezzo milione di pubblici dipendenti, e di utilizzare i risparmi per ridurre le imposte. Il risultato sarebbe che, nel breve periodo, la contrazione di domanda aggregata che da ciò deriverebbe (minore massa salariale pubblica), causerebbe un peggioramento subitaneo della congiuntura, che a sua volta determinerebbe un nuovo calo delle entrate fiscali, che in qualche modo andrebbe colmato. E non si pensi che ciò non potrebbe accadere perché l’operazione sarebbe “a pareggio”. Non sta scritto da nessuna parte che le minori tasse finirebbero col riversarsi automaticamente in domanda aggregata: parte verrebbero risparmiate, sia per motivazione precauzionale che per essere utilizzate per ripagare debiti.
Per avere espansione occorre trovarsi in un contesto di crescita globale, non in uno profondamente recessivo come l’attuale. La stessa manovra sull’Iva prevista dal governo, di questo passo, non andrà a finanziare tagli del cuneo fiscale (come invece sarebbe massimamente auspicabile e come ancora ipotizzano Felli e Tria, forse per eccesso di ottimismo), ma a coprire nuovi buchi di gettito, causati dalla recessione. Ecco perché il governo, dopo aver esplicitato la propria ipotesi “virtuosa” di manovra sui carichi d’imposta nel quadro di una strategia “offertista” che sposta il peso dell’imposizione dalle persone alle cose, cioè dal reddito ai consumi, è diventato improvvisamente afasico: non ci sono margini di manovra per una simile operazione perché non c’è crescita, e la crescita non c’è perché l’Eurozona ha scelto una strategia recessivo-deflazionistica che ha in sé i germi dell’autodistruzione.
Tutto ciò premesso, anche per non essere accusati di statalismo, diciamo che la spending review va più che bene, anche se ormai pare essere diventata una leggenda metropolitana. Ma il problema vero è che il paese è affondato da una corruzione dilagante e da una classe politica che di quella corruzione è causa e prodotto. Quindi, siamo in trappola: smantellare il peso dello stato equivarrebbe a smantellare la manomorta partitica ma al contempo (ammesso e non concesso di riuscirci e di vincere le resistenze dell’oligarchia, ipotesi eroica), produrrebbe un aggiustamento di breve termine che avrebbe conseguenze economiche e sociali pesantissime, probabilmente insostenibili. Probabilmente quelle conseguenze ci saranno lo stesso, quando il dissesto sarà compiuto, ma proviamo a riflettere circa il fatto che ogni sistema ha in sé un’inerzia elevatissima, e ribaltarlo (come si vorrebbe e dovrebbe fare) finisce con l’essere un’impresa proibitiva. Figuriamoci in un sistema stressato da una recessione che sta assumendo venature di depressione.
Per cambiare le cose servirebbe agire in un contesto di crescita globale e di forte volontà riformistica domestica. Nessuna delle due esiste al momento, come sappiamo, ed è peraltro pressoché certo che, ove vi fosse crescita, il sistema riuscirebbe fisiologicamente a preservare lo status quo. Sperare in un default come momento dirimente e motore primo di una rifondazione del modello sociale ed economico del paese, quindi? Qui saremmo scettici: la palingenesi non appartiene al paese del Gattopardo, ed in caso di crack i rischi (e le più elevate probabilità) sarebbero quelle di una involuzione autoritario-populistica, di cui già oggi vi sono tracce più che evidenti. Può il liberismo nascere dalla fame? Forse si, ma anche in Italia?
E allora?, vi chiederete con malcelata irritazione, che comprendiamo e condividiamo. Allora, questa strada è sbarrata. Serviva/serve un’Europa politica, mossa da una condivisa spinta liberista e liberalizzatrice, che ritrovi la ragione e la crescita. E che smetta di adorare il dio fallito dell’austerità. Cioè serve un miracolo. Tutto ciò premesso, non possiamo e non dobbiamo neppure accettare un esecutivo che tiri a campare con misure di immagine e tanta, troppa, retorica paternalistica.