Ieri, in una intervista al Corriere, il professor Paolo Savona ha precisato i termini della sua proposta di “consolidamento” del debito pubblico italiano per liberare risorse, da egli quantificate in 30 miliardi di euro annui, destinabili (ad esempio) alla riduzione del cuneo fiscale. E’ una proposta che manca di uno straccio di numero a corredo. O meglio, contiene i numeri a cui si vuole arrivare ma non quelli che vengono inseriti nell’operazione. Niente input, solo output. A meno che quei numeri non siano custoditi gelosamente dal promotore di questa proposta, nel qual caso ci farebbe piacere vederli, non trattandosi della ricetta della Coca Cola.
La premessa di Savona è che lo stock di debito è assistito da garanzia implicita rappresentata dal patrimonio pubblico, incluse le partecipazioni ed il patrimonio degli enti locali. E già qui si intravvede all’orizzonte un discreto ginepraio su chi conferirebbe cosa, ma non sottilizziamo ché tanto “la colpa è dei burocrati”, come ribadisce lo stesso Savona, secondo la nuova rassicurante vulgata sul “massimo agente ostruente esterno”. Tale patrimonio pubblico indistinto ammonterebbe a duemila miliardi di euro, secondo la valutazione prudenziale della commissione Reviglio junior, del 2011. Anche qui, prendiamo per buono il dato.
C’è da dire che Savona non vuole (più) alcun default, e questo è già un passo avanti. Nel senso che non vuole concambi forzosi dei titoli di debito pubblico, bensì volontari. In tal modo non si innescherebbe la determinante del default, ma resta da capire quale potrebbe essere la motivazione al concambio su base volontaria. In realtà, si capisce sin troppo bene, su base razionale: i nuovi titoli devono essere più redditizi di quelli vecchi. Fosse così facile. Perché i nuovi titoli di Savona sono un pacchetto composito, un bundle come direbbero gli anglosassoni, i cui mattoncini devono quindi essere prezzati uno ad uno per giungere al valore complessivo dell’offerta. Vediamo in dettaglio:
«Innanzitutto si tratta di un’operazione di consolidamento su base volontaria. I titoli pubblici emessi dal Tesoro in circolazione vedrebbero la loro scadenza rimodulata a sette anni, indipendentemente dalla tipologia e dalla vita residua e gli interessi verrebbero rideterminati annualmente sulla base del costo della vita e del 20 per cento del tasso di crescita del Pil reale. Inoltre, per ogni mille euro di valore nominale di emissione di ciascun titolo oggetto del provvedimento sarebbe assegnato uno warrant negoziabile sul mercato durante i sette anni di vita del titolo sia per trarre un beneficio monetario immediato sia per opzionare i beni e le attività finanziarie messi a disposizione dallo Stato»
Andando per ordine: non è chiaro perché proprio sette anni (manco fosse uno specchio rotto), quando la durata media dello stock di debito pubblico italiano dovrebbe essere già oggi di poco superiore ai sei anni. Non c’è grande beneficio di consolidamento, ad occhio. Riguardo il nuovo metodo di conteggio degli interessi sul prestito, che accadrebbe in caso di contrazione del Pil reale, ci sarebbe un floor a zero? Savona ha svolto delle simulazioni per capire quanto vale questa opzione, ed incorporarla nel prezzo del pacchetto? Non lo sappiamo. E comunque, perché sommare l’indice dei prezzi al consumo con una frazione di incremento del Pil reale? Non era meglio utilizzare la variazione di Pil nominale, in modo da allineare il costo del debito al tasso di crescita del Pil, e poi attaccarci lo zuccherino del warrant? Riguardo quest’ultimo, che servirebbe a beneficiare della futuribile valorizzazione del patrimonio pubblico, esso ha certamente senso ma a monte deve esserci la creazione di una gigantesca società di gestione de risparmio, in cui si distinguano gli asset fortemente illiquidi, come le caserme (e relativi vincoli da piani regolatori), da quelli liquidi come le partecipazioni in società quotate. Non una passeggiata, ed anche qui manca qualsivoglia riferimento alla metodologia di calcolo, che permetterebbe di arrivare ad un pricing dei titoli offerti a concambio.
Ma Savona gode di incrollabili certezze, a quanto pare. Non si tratterebbe di uno scenario argentino?
«No. Durante i 7 anni del consolidamento il Tesoro non dovrebbe più finanziarsi emettendo titoli, dovrebbe rispettare il pareggio di bilancio e beneficerebbe del calo degli interessi sul debito di almeno 30 miliardi di euro all’anno, rispetto agli 85 che paghiamo ora, risparmi che per esempio potrebbero essere ben utilizzati per abbattere il cuneo fiscale sui salari. L’operazione dovrebbe essere strutturata giuridicamente e finanziariamente da società specializzate a livello internazionale che, ovviamente dietro adeguate commissioni, ne garantirebbero però il successo»
Lo stato dovrebbe rispettare il pareggio di bilancio ed anche mantenere un ampio avanzo primario: è un vaste programme, ammettiamolo. Per sette anni questo vincolo abolirebbe la possibilità di ricorrere agli stabilizzatori automatici durante le recessioni, cioè ora? E da dove esce la somma di 30 miliardi di euro di risparmi, se si tratta di concambio volontario? Però i risparmiatori possono stare tranquilli, perché alla fine avrebbero in portafoglio un titolo remunerativo e con un warrant per opzionare beni pubblici in dismissione o valorizzazione. Cioè avrebbero in tasca uno strutturato, per evitare di usare eufemismi, il cui pricing sarebbe complesso, pur considerando la possibilità di fare lo stripping del warrant, cioè staccarlo dal titolo, e negoziarlo separatamente sul mercato.
Interessante poi il fatto che Savona invochi gli dei ex machina, cioè le banche d’affari che dovrebbero fungere da strutturatori del pacchetto:
«L’operazione dovrebbe essere strutturata giuridicamente e finanziariamente da società specializzate a livello internazionale che, ovviamente dietro adeguate commissioni, ne garantirebbero però il successo»
Davvero? A noi invece pare che il successo dell’operazione dipenda in modo decisivo dalla remuneratività dell’offerta, visto che stiamo parlando di uno strutturato. Se Savona pensa ad una sorta di acquisto “a fermo” da parte delle banche d’affari, se la faccia passare. Le onlus stanno altrove.
A noi pare, per tirare le somme, che Savona abbia fatto evolvere la propria idea da quella originaria, dell’agosto dello scorso anno, formulata con Michele Fratianni, in cui si andava dritti sparati verso il default, ma la costruzione resta viziosamente barocca e priva di elementi di concreta valutazione dello strumento di mercato che si vorrebbe emettere, con numeri in libertà forniti a mo’ di ipse dixit dallo stesso Savona. E’ possibile che, alla fine, si arrivi ad un esito simile, nel senso che alle famiglie potrebbe arrivare in testa un consolidamento forzoso del debito pubblico, assai difficilmente volontario. Ed è altrettanto possibile che questa “proposta” sia il modo di Savona per segnalarsi come “esperto” della materia quando il Tesoro inizierà a studiare operazioni del genere, in gran segreto. Per il resto, nulla di nuovo all’orizzonte, che resta plumbeo. Questa proposta continua ad essere ascrivibile alla categoria “ingegneria finanziaria per disperati“.
P.S. Naturalmente siamo a disposizione per pubblicare i numeri e le simulazioni che il professor Savona ha utilizzato per giungere alla sua proposta.