Fiabe di successo per pedagoghi fantasiosi

Ennesimo editoriale della premiata ditta Alesina e Giavazzi, oggi sul Corriere, relativo al tabù del taglio di spesa pubblica in Italia. Concetti che sarebbero pure condivisibili, se non fossero frammisti alla elevazione a modello di quello che semplicemente modello non è. Mentre, nel frattempo, anche qualche paese virtuoso ed a massimo merito di credito si incammina verso un avvitamento che metterà alla prova la tesi secondo cui i tagli di spesa si possono e debbono fare indipendentemente dal contesto economico circostante, ad esempio durante una crisi fiscale indotta da una recessione che somiglia molto ad una depressione, a sua volta indotta da una crisi finanziaria. Ma andiamo con ordine, sperando di riuscire a farci capire.

Alesina e Giavazzi se la prendono con la tendenza alla crescita della spesa pubblica italiana, al netto della componente riferita agli interessi su debito. Tale spesa, nel biennio 2012-2013, è passata dal 45 al 45,8 per cento del Pil. Il che non è neppure tanto, a pensarci, visto che nel frattempo il Pil si è pure contratto. Difficile affermare che, nell’ultimo biennio, l’Italia abbia spinto la spesa pubblica. Certamente, considerando che dieci anni addietro tale quoziente era al 41,4 per cento di Pil, e che all’epoca non eravamo sotto le bombe, non si può che ringraziare il più grande statista del secolo ed il suo fido ministro dell’Economia (quello dell’euro di carta) per l’eccellente lavoro svolto. Ma oggi le cose stanno in modo differente, perché il paese è immerso in una depressione, quindi i gradi di libertà sono minori. Possiamo dirci d’accordo con questo? Pare di no. Ma proseguiamo.

Alesina e Giavazzi sono contrari ad ogni e qualsiasi tipo di spesa pubblica, inclusa quella in conto capitale. Questo è l’approccio di chi ritiene che la spesa pubblica sia sempre e comunque un male, e che anche gli investimenti pubblici, fatti in un paese di cialtroni come l’Italia, finirebbero col ridurre la crescita di lungo periodo dell’economia. Può essere, verrebbe da dar loro ragione, d’acchito.

Ma dove A&G scivolano in modo grottesco è sul parallelo tra Italia ed Irlanda. Nel senso che quest’ultima sarebbe un modello anche per noi, perché “hanno ridotto la spesa e stanno tornando a crescere”. L’Irlanda è un caso davvero peculiare, ne abbiamo scritto. Intanto, non di sola riduzione di spese si è trattato, visto che hanno avuto anche fortissimi aumenti Irpef, anche per proteggere l’aliquota fiscale sulle imprese al 12,5 per cento, che è alla base del modello di crescita del paese. Il fatto che l’incidenza della spesa su Pil a fine 2012 sia scesa al 42 per cento, dopo gli aumenti devastanti frutto del salvataggio del sistema bancario, non dice nulla sulla correlazione diretta tra spesa e crescita, che invece A&G postulano a mo’ di abituale ipse dixit.

A&G affermano poi che il Pil irlandese crescerà quest’anno dell’1,3 per cento, e che questo sarebbe il premio per il taglio di spesa. Può essere, ma se fossimo in loro guarderemmo anche il Pnl, cioè il prodotto nazionale lordo, cioè la ricchezza prodotta dai soli residenti. Questa grandezza in Irlanda si discosta in modo eclatante dal Pil, a causa della abnorme presenza di multinazionali che trasferiscono profitti alle rispettive case madri, in uscita dal paese. Il salvataggio internazionale dell’Irlanda è avvenuto considerando la metrica del Pil, ma la sostenibilità del debito andrebbe vista dal versante del Pnl, che di recente si è scoperto essere ulteriormente inferiore, a causa della presenza delle redomiciled Plc, cioè di imprese estere che non contribuiscono all’economia irlandese perché spesso non hanno neppure personale locale, essendo solo una casella postale o poco più.

Depurando il Pnl, che di suò è già sensibilmente inferiore al Pil, dalle redomiciled Plc, si ottiene un quadro molto fosco dell’economia irlandese e della sostenibilità del suo debito pubblico, oltre che dell’apparente boom del suo export. Il tutto tacendo della bizzarra attitudine di accettare acriticamente le previsioni di crescita di un paese che, al primo trimestre del 2013, aveva un Pil tendenziale a meno 1 per cento, a cui ha contribuito, sempre nel primo trimestre, una contrazione trimestrale dello 0,6 per cento, identica a quella italiana. Davvero una storia di successo, non c’è che dire. Con disoccupazione inchiodata al 14 per cento, ma solo grazie all’emigrazione ed al calo del tasso di partecipazione alla forza lavoro, ed un deficit-Pil a fine 2012 al 7,5 per cento.

Domanda per Alesina e Giavazzi, oltre che per i lettori: ma come diavolo è  possibile inferire una storia di successo basandosi su previsioni, quando la realtà resta fortemente negativa, postulare causalità che semplicemente non esistono, e non temere che la propria reputazione  possa subire dei danni per opera della realtà e di un minimale fact checking? Se si vuole ribadire che l’Italia è un paese ridicolo, dove torme di cialtroni si accapigliano metafisicamente sulla tassazione della prima casa  f0ttendosene del costo del lavoro, lo si faccia tranquillamente, è cosa buona e giusta. Ma per favore, basta con questa stucchevole pedagogia sull’erba del vicino che è sempre più verde, anche quando il vicino è pesto e concio.

Per chiudere, invitiamo voi ed A&G a tenere gli occhi sull’Olanda. Paese in crisi sempre più evidente: mercato immobiliare in condizioni tragiche, sistema bancario pressoché tutto nazionalizzato ed in grave affanno, un debito privato (perlopiù ipotecario) abnorme, l’Olanda è impegnata nella rincorsa al mitologico 3 per cento di deficit-Pil. E’ un paese che, lo scorso ottobre, ha pensato di alzare di due punti l’aliquota ordinaria Iva, dal 19 al 21 per cento, e che oggi si prepara a varare un pacchetto da 6 miliardi di euro, fatto tra le altre cose di un ulteriore aumento Irpef oltre che del  progressivo smantellamento del proprio welfare, ad esempio con la riduzione dei sussidi pubblici alle spese sanitarie. Un paese con pressione fiscale al 46,4 per cento di Pil e con spesa pubblica passata, dallo scoppio della crisi nel 2008, dal 46 a quasi il 51 per cento di Pil, per l’operare di stabilizzatori automatici e per le spese di salvataggio del sistema bancario, e con un Pil tendenziale in contrazione dell’1,8 per cento, proprio come noi piccoli cialtroni italiani. Da questo momento in avanti, l’Olanda capirà che non è possibile “risanare” senza crescita, o meglio durante una crisi finanziaria che causa il crollo sistematico e protratto del gettito fiscale, e dovrà quindi decidere se amputare il proprio sistema di welfare per quadrare i conti. Si fa per dire, perché in questo caso i conti affonderanno ulteriormente. Eppure, vedrete che un editoriale di Alesina e Giavazzi vi spiegherà, tra qualche tempo, che l’Olanda è affondata esattamente perché non ha tagliato la spesa.

Perché evidentemente, anche in paesi meno cialtroni dell’Italia, il taglio della spesa, in questa drammatica congiuntura da avvitamento, si presenta proibitivo, o quasi. Ma solo per chi non ascolta Alesina e Giavazzi, s’intende.

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