Oggi, sul Sole, un articolo dell’ottimo Morya Longo mette l’accento sull’apparentemente insufficiente afflusso di risparmio privato italiano all'”economia reale”, stimato in circa il 10% dello stock totale. Il tema è piuttosto delicato, e rischia di prestarsi a letture strumentali da parte del potere politico, soprattutto nell’attuale congiuntura del nostro paese. Anzi, no: la strumentalizzazione è già in atto.
Scrive Longo:
Se anche le banche non sostengono più le imprese come una volta, i capitali “alternativi” da fare arrivare al sistema produttivo made in Italy dunque ci sarebbero. II problema è che questi soldi sono mal distribuiti e, soprattutto, male investiti: di questa montagna di capitali, secondo un calcolo approssimativo elaborato dal Sole 24 Ore, molto meno del 10% va infatti a finanziare le imprese italiane e lo sviluppo economico.Tutto il resto finisce in titoli di Stato o all’estero: la ricchezza degli italiani, insomma, serve in minima parte a sostenere lo sviluppo dell’Italia
Qui occorre qualche precisazione definitoria ed operativa. La partecipazione ad un aumento di capitale o al collocamento in borsa di una società (entro dati limiti, se esiste una componente di aumento di capitale e non solo di subentro agli azionisti venditori) è a tutti gli effetti risparmio incanalato verso l'”economia reale”. Anche la sottoscrizione di titoli di debito societario, dai corporate bond a strumenti come le cambiali finanziarie lo è. Avere un portafoglio diversificato ed investito in azioni ed obbligazioni societarie è comunque partecipazione alla “economia reale”.
Il problema italiano è che siamo posizionati nel modo peggiore per affrontare il cambiamento indotto dalla attuale fase storica. Vediamo perché. Intanto, la stra-citata natura bancocentrica del sistema finanziario italiano, che viene enormemente rafforzata dalle assai ridotte dimensioni medie del sistema delle imprese, e di conseguenza dalla loro natura familiare, in cui il capitale di rischio è spesso ai minimi termini e sostituito da uso abnorme di credito bancario. Le ridotte dimensioni delle imprese italiane sono un oggettivo ostacolo alo sviluppo di canali di finanziamento diretto, mediante ricorso al mercato dei capitali. Non è un caso che i tanto decantati minibond, che una pubblicistica interessata dipinge come la maggiore invenzione nella storia dell’umanità dopo la penicillina, restino di fatto confinati a nicchie dimensionali di imprese. E non potrebbe essere altrimenti.
Si dice: famiglie ed investitori istituzionali italiani (fondi pensione, soprattutto) sono troppo legati ai titoli di stato. Verissimo, visto lo stock abnorme sin qui accumulato e la necessità di suo finanziamento. A questo si deve aggiungere che, in conseguenza della crisi, il nostro stock di debito pubblico è divenuto molto più domestico: il possesso da parte di non residenti è passato dal 50% a circa il 30%, e spesso si tratta di residenti esterovestiti. Questo ripiegamento per linee nazionali del possesso del debito pubblico ha imposto al governo italiano di ricorrere a forme di repressione finanziaria neppure troppo dissimulate. La principale è quella della fiscalità . Dallo scorso luglio, come sapete, i titoli di stato detenuti da nettisti restano tassati al 12,50% mentre gli strumenti finanziari emessi da privati (cioè da coloro che dovrebbero rappresentare l'”economia reale”) si beccano un bel 26%. Ovviamente, questa levata d’ingegno è stata accuratamente martellata dalla Neolingua renziana, come “tassazione della ricchezza”, sottintendendo che i titoli di stato non sono ricchezza. L’ormai leggendario analfabetismo finanziario della nostra sinistra ha fatto il resto, avallando ideologicamente la misura (e facendoci una figura penosa, come peraltro da consolidata tradizione della sinistra italiana).
Date queste premesse, quindi (tassazione discriminante e punitiva contro gli strumenti finanziari emessi dal settore privato, cioè dall’economia reale), di che diavolo parliamo quando affermiamo che gli italiani non sanno investire né fare l’asset allocation? Ma non è finita qui. Come ricorderete, la legge di Stabilità renziana ha massacrato fiscalmente anche il risparmio previdenziale, sia quello complementare che le Casse professionali. Ma tanto sono tutte “rendite finanziarie”, giusto? L’occasione è tuttavia risultata propizia per cercare di mettere nella gestione del risparmio previdenziale quella spruzzata di dirigismo ottuso di cui noi italiani non riusciamo proprio a privarci, ad ogni occasione utile.
Che si fa, quindi? Si decide che, se i fondi pensione investiranno nella ormai famigerata “economia reale”, sui frutti di tali investimenti pagheranno la vecchia aliquota d’imposta. Troppo buono, Sire. Il MEF, in modalità Soviet, ha nel frattempo deciso quali sarebbero questi investimenti nella “economia reale”. Eccoli:
«(…) realizzazione di infrastrutture correlate all’erogazione di servizi pubblici o di pubblica utilità , effettuate attraverso la sottoscrizione o l’acquisto di azioni o quote di società (oppure obbligazioni o similari) operanti nei settori delle infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, sanitarie, delle telecomunicazioni e della produzione e trasporto di energia e fonti energetiche»
e l’investimento potrà avvenire sia direttamente, tramite acquisto di azioni ed obbligazioni (da detenere per non meno di 5 anni) che indirettamente, cioè a mezzo di fondi di investimento specializzati, nel qual caso il vincolo temporale di detenzione raddoppia a dieci anni. Beh, ma non è così male, ci sembra di sentirvi commentare. Se non fosse che il diavolo si nasconde nei particolari. Intanto, il beneficio fiscale per i fondi pensione che effettueranno questi investimenti è fissato in totale a 80 milioni di euro. Che accadrà , in caso fossero rapidamente esauriti? La misura verrà rifinanziata oppure avremo un bel gesto dell’ombrello? Ma l’aspetto ancor più assurdo di questo protocollo da “socialismo reale” per agevolare l'”economia reale” lo spiega molto bene Marco lo Conte, sempre sul Sole di oggi, commentando la bozza del decreto ministeriale (campa cavallo, che l’erba cresce) che dovrebbe regolare l’agevolazione fiscale:
Ma è il quinto articolo che si presenta particolarmente problematico per l’operatività di un soggetto istituzionale: fondi pensione e Casse dovranno ogni anno comunicare all’Agenzia delle Entrate «l’importo dei redditi che è stato investito nelle attività di carattere finanziario di cui all’articolo 2, entro sei mesi dal termine del periodo d’imposta di riferimento, e quello massimo agevolabile». All’Agenzia il compito di valutare l’attendibilità della richiesta del credito di imposta, in una dialettica con ciascun investitore istituzionale, che ogni anno può tradursi in un contenzioso: un’operatività che esula dalle modalità operative dei fondi pensione, peraltro vigilate nella loro operatività dalla Covip, che hanno l’obbligo di delega di gestione a soggetti istituzionali, tramite una banca depositaria (le Casse hanno maggior agio nella gestione diretta).
Cioè, vi rendete conto? L’Agenzia delle Entrate diventa una sorta di dominus della politica industriale italiana, decidendo di volta in volta quali sono gli investimenti in “economia reale” che possono ambire allo sgravio fiscale, ammesso e non concesso che nel frattempo il plafond di credito d’imposta non si sia esaurito. Anche qui, un caso di acquedotti pesantemente contaminati con sostanze psicotrope. Non solo demenziale ed impropria interferenza regolatoria dell’Agenzia delle Entrate, ormai dotata di poteri sovrannaturali, nell’attività degli investitori istituzionali; non solo incertezza assoluta sulla esigibilità e permanenza del credito d’imposta; non solo sfasature temporali nel processo burocratico che sembrano uscite da una puntata di “Ai confini della realtà “. Ma davvero riusciamo anche a vagare per l’Europa dicendo che stiamo facendo riforme growth-friendly? E poi riusciamo anche a lanciare lo spin che gli italiani non sanno allocare il proprio risparmio, in un tripudio di paternalismo in cui la discrezionalità del regolatore è puro arbitrio e quella del legislatore le è sovraordinata, col ricorso a carota e bastone fiscale? E comunque: e se io, fondo pensione, andassi ad investire in aziende infrastrutturali globali? Forse che l’Agenzia delle Entrate mi rifiuterà il placet fiscale?
E se anziché costruire questo abominio (ed altri, dalla stessa matrice psicotica), ci fossimo limitati a non toccare la fiscalità sui frutti del risparmio emessi dal settore privato? Troppo difficile, vero? Non saremmo in Italia, paese maledetto dal Demone del Fisco, governato pro tempore da un giovanotto arrogante ed inconsapevole. Di star ripercorrendo il sentiero fallito di quelli che oggi sta rottamando, definendoli vecchie glorie del wrestling.