Da Buttonwood, blog dell’Economist, alcune considerazioni banalmente illuminanti sulla “solidarietà” tra paesi, in caso di crisi. A volte siamo così ossessionati dall’albero che perdiamo di vista la foresta. Ed il breve termine non è caratteristica dei mercati finanziari ma anche delle cosiddette democrazie. Al netto delle disfunzionalità congenite di una Eurozona disegnata come unione monetaria, e che in quanto tale ha in sé il virus dell’autodistruzione al verificarsi di divergenze nei fondamentali economici e shock sistemici alimentati dal grado di apertura ed integrazione dei mercati finanziari, variabile che qualche teorizzatore facilone continua ad ignorare.
Scrive Buttonwood:
«L’accordo greco non riguarda il mettere gli elettori di un paese contro i banchieri, ma il mettere gli elettori di un paese contro quelli degli altri. Nessuno ha suggerito di tenere un referendum in altri paesi relativo al salvataggio dei greci, per l’ottima ragione che se ne conosceva già l’esito. Lo stesso sarebbe accaduto al salvataggio statunitense del Messico nel 1994 o anche allo stesso salvataggio delle banche Usa nel 2008. In un mondo ideale, gli elettori proverebbero solidarietà rispetto a quelli degli altri paesi; in generale, ciò non accade. Ci sono molti economisti di lingua inglese che criticano aspramente i tedeschi per quello che hanno fatto alla Grecia; i governi britannico e statunitense hanno pure insistito affinché l’Unione europea raggiungesse un accordo. Quando si giunge all’aiuto pratico, tuttavia, la risposta è piuttosto differente; il Regno Unito aveva anche respinto l’idea di usare fondi del bilancio della Ue per aiutare la Grecia. Perché? Perché tale suggerimento sarebbe politicamente tossico nel Regno Unito. E’ la democrazia in azione per voi»
Lo stesso concetto è incastonato nei trattati istitutivi della Ue, con termini differenti. Con ulteriori, più tecnici ma non meno efficaci termini il professor Dario Stevanato lo spiega qui. In particolare:
«[…] ogni aiuto finanziario tra Stati (ancorché tutti appartenenti all’eurozona) non può mai diventare esplicitamente un trasferimento a fondo perduto, poiché verrebbero sovvertite regole consolidate da secoli, radicate nelle tradizioni costituzionali: e cioè il legame territoriale tra entrate fiscali e spesa pubblica. Una surrettizia trasformazione degli aiuti finanziari in trasferimenti già ex ante senza prospettiva di restituzione spezzerebbe il legame tra il dovere fiscale e il concorso alle spese pubbliche, giacché i contribuenti di una nazione si troverebbero a contribuire alle spese di altre collettività, come avevo evidenziato in un precedente post)»
«E’ questo il rischio oggi implicito nei nuovo piano di aiuti finanziari alla Grecia: e se vogliamo esprimerlo in termini di perdita di sovranità, la dovremmo allora riferire non allo Stato destinatario dell’aiuto, bensì a quelli erogatori, “costretti” a destinare le proprie entrate fiscali alla soddisfazione di bisogni di altre collettività. Quanto al deficit di democrazia del meccanismo di aiuti, se ne dovrebbero semmai lamentare i cittadini degli Stati creditori, chiamati a pagare tributi per far fronte a spese in deficit non deliberate dai propri rappresentanti e di cui essi non hanno beneficiato»
Quindi? Quindi serve che questi aiuti siano condizionati, cioè formalmente (e sostanzialmente) non siano già ex ante a fondo perduto. O, detto altrimenti, che vi sia una ragionevole probabilità che questi soldi rientrino al creditore. Possiamo dire che nel caso greco questa probabilità esiste? Noi avremmo molti dubbi, oggi più di ieri. Possiamo vendere agli elettorati dei paesi creditori il fatto che, senza questi aiuti, i medesimi starebbero peggio, molto peggio, in futuro? Forse, ma finiremmo nel gioco di specchi dei controfattuali.
Ultima considerazione, sul “rispetto delle regole”, al limite del maniacale, tanto invocato dai tedeschi. Perché non si può tagliare il valore nominale del debito sovrano greco? Perché si violerebbe la clausola di no-bailout, ex articolo 125 del Trattato di Lisbona. Bene, ma che dire invece di una riprofilazione del debito, nel senso di allungamento delle scadenze e riduzione del tasso di interesse? Pare che questo non violi alcuna lettera, perché il valore nominale del medesimo resta invariato. Anche se, a dirla tutta, col reprofiling stiamo abbattendo l’unica grandezza che conta, quando parliamo di denaro: il valore attuale netto. Troppo complesso? Forse.
E’ utile avere un ancoraggio alle regole: ai tedeschi serve di solito come ansiolitico, anche se il rispetto letterale delle regole genera mostri, a volte. E di certo noi italiani pecchiamo nell’estremo opposto, quello di darci regole che servono solo ad essere aggirate, interpretate e deformate. Ma un trattato che consideri il valore nominale di un credito e non il suo valore attuale è qualcosa di demenziale, a prescindere. Quasi quanto la sua interpretazione letteralista. Il tutto prescindendo dai disastri realizzati in questi anni di “salvataggi” di un paese che non voleva farsi salvare ed amava uno status quo quasi onirico.
P.S. Sperando che prima o poi gli analfabeti populisti di casa nostra smettano di dire che questi aiuti “vanno ad ingrassare le banche tedesche e francesi”. Dovrebbe esserci un limite anche all’ignoranza, anche se nel dibattito pubblico di questo paese questo limite è sempre spostato più in là. O più in giù, se preferite.