Insurrection Day, c’era una volta l’America

La “guerra dei mondi” americana non è iniziata con Trump

Si diranno e scriveranno molte cose, sulla sconcertante rappresentazione andata in scena ieri a Washington, durante il processo di certificazione dei voti di collegio elettorale che hanno assegnato la presidenza a Joe Biden. Un processo largamente cerimoniale che tuttavia questa volta è divenuto il catalizzatore di un tentativo di insurrezione alimentato da un presidente che da quattro anni sta incessantemente picconando l’istituzione che rappresenta, oltre a mandare in frantumi tutti i miti che noi, poveri provinciali alla periferia dell’Impero, da sempre abbiamo cari sull’America. Terra di opportunità, libertà, democrazia, eccetera. Oggi direi che la vittoria è dei relativisti disincantati, ma non c’è motivo per gioirne.

La chiave di lettura più rassicurante è quella che vede in Donald Trump un uomo di scarso equilibrio psichico e caratterizzato da una personalità marcatamente istrionica e paranoide impegnato a scuotere le fondamenta della democrazia americana, che tuttavia resiste e rinasce più bella e più forte che pria.

Quella meno rassicurante si domanda invece perché e sulla base di quali motivazioni quest’uomo sia riuscito ad arrivare sin dove è arrivato, e se il processo di selezione degli eletti sia poi così robusto e non abbia invece in sé i germi dell’autodistruzione del sistema. La risposta assai banale ma per ciò stesso robusta è che quest’uomo ha goduto e gode di un forte consenso popolare, e da lì bisogna partire con l’analisi.

I social network, camere a eco dell’autosegregazione culturale

Il populismo come richiamo della foresta e lenitivo per insoddisfazione, deprivazione, depauperamento economico ma prima ancora culturale è la spiegazione più semplice e forse più efficace. La velocità di diffusione delle “informazioni”, o meglio dei messaggi che formano e rinforzano le credenze è stata resa esplosiva dal ruolo dei social network, che da ieri hanno perso definitivamente non solo l’innocenza ma anche l’illusione di poter controllare a colpi di improbabili algoritmi frammisto a controllo umano la diffusione virale di messaggi distorti e distorsivi da parte di organizzazioni e individui.

La risposta ansiolitica alla minaccia della complessità e alla disgregazione del proprio mondo viene dalle camere a eco e dal cospirazionismo tribale, paranoide e vittimista che esse portano con sé.

Oggi ad esempio sui media internazionali vedo quasi più eco e stupore per la decisione di Twitter e Facebook di silenziare Trump per almeno 12 ore che non per l’atto insurrezionale forsennatamente spinto dal presidente. Qualcosa su cui riflettere.

Il “federalismo culturale” americano e gli alieni

Poi c’è il tema del “federalismo sociale e culturale” degli Stati Uniti. Quel presunto modello di convivenza plurale nella libertà che da sempre attrae e affascina il mondo, generando soft power. Oggi scopriamo che quel “federalismo”, fatto di diversità culturali estreme, ha in sé i germi dell’autodistruzione del sistema, nella misura in cui il comune denominatore della convivenza viene sottoposto a sollecitazioni violente come quelle dell’ultimo quadriennio, che giungono alla radicale delegittimazione degli altri gruppi sociali.

Sollecitazioni che, ribadiamolo, non sono nate nel 2016. Tutta la storia degli Stati Uniti è fatta di violenza e oscurità, affiancate alla mitopoiesi libertaria e individualistica. Di insofferenza contro il potere centrale che ha trovato espressione in forme di terrorismo domestico organizzato soprattutto da bianchi. D’acchito, mi sovviene la strage di Oklahoma City dell’aprile 1995 contro un edificio federale ma la lista è lunghissima. Provate a guardare o riguardare una serie tv iconica come X-Files, o ancora più indietro, “Ai confini della realtà“: capirete cosa intendo.

I “mondi alieni”, una delle maggiori costanti narrative statunitensi, che tentano di invaderci e devastare la nostra ricerca della felicità li abbiamo in casa, sono i nostri vicini.

Non è solo questione di disagio economico, che pure gioca un ruolo molto rilevante: le spinte all’autosegregazione culturale sono sempre state molto forti, negli Stati Uniti. Al punto da indurre a chiedersi come il sistema potrà sopravvivere a esse. Dopo ieri, ma non solo ieri, questa domanda resterà centrale.

Un sistema sociale ed economico che è evoluto costantemente in direzione di una crescente oligarchizzazione, con buona pace dei miti sugli ascensori sociali che sfrecciano in verticale nella Terra delle Opportunità. Quella in cui si scopre che gli Student Loan sono mutati da strumento di meritocratica promozione sociale a catena a collo e piedi di esistenze e sogni. Abbiamo perso l’innocenza di credere che sul suolo americano l’ascesa sociale dei singoli sia meno ostacolata che altrove, e che le ascendenze non contino o contino meno, rispetto al duro impegno personale.

La democrazia come accidente della storia?

Ora rischiamo anche di scoprire che il sistema di organizzazione sociale chiamato democrazia è solo una delle molteplici forme di organizzazione umana, e forse nemmeno la meno imperfetta, con buona pace delle parole di Winston Churchill. Le autocrazie, dittature e democrature del mondo sono lì a suggerirlo. Primum vivere, deinde philosophari. Avviso per i babbei alla lettura: questa non è apologia dell’illiberalismo, semmai il contrario.

Un federalismo sociale basato su mondi culturali affiancati, che comunicano poco e nulla e sono vieppiù ostili, è difficile riesca a trovare un denominatore comune valoriale e istituzioni che tale denominatore possano rappresentare. La lacerazione (irreparabile?) di questo tessuto connettivo è ciò che genera i Donald Trump e tutti gli altri apprendisti stregoni populisti, che aprono il vaso di Pandora. Questo dovrebbe tenere presente Joe Biden e non solo lui, quando sbrigativamente liquida il fenomeno Trump come un accidente della storia, pronta a riprendere il suo rassicurante cammino durante la sua presidenza.

Ironicamente, gli Stati Uniti scoprono (solo oggi) che lo scontro di civiltà lo hanno in casa, e non da ieri né l’altroieri. Come si può tentare di riconnettere questi mondi, ritrovando un denominatore comune di valori? Affrontare il disagio economico è solo una parte del tentativo, e peraltro potrebbe causare reazioni controproducenti, in caso si puntasse solo su forme di redistribuzione assistenzialistica.

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