di Andrea Giovanardi e Dario Stevanato
Quando abbiamo deciso di scrivere un libro sull’annosa questione della ripartizione delle risorse fiscali tra i diversi territori che costituiscono la Repubblica, sapevamo di assumerci un compito ingrato. Ciò, a maggior ragione, avendo maturato una posizione che si pone controcorrente rispetto all’imperante solidarismo e ugualitarismo con cui un simile tema viene di solito affrontato (“non possono esistere cittadini di serie A e cittadini di Serie B!”, secondo un logoro refrain). Purtroppo il tentativo di contemperare la prospettiva del diritto costituzionale con quella economica (i diritti costano!), per quanto ineludibile, è per molti, in questo Paese, poco meno che un’eresia.
Considerato poi il nostro ruolo nella Delegazione trattante per l’autonomia del Veneto, quella che ha contribuito a scrivere la norma finanziaria che porterebbe il paese “Verso la secessione dei ricchi” (Viesti, 2019), spaccando l’Italia, certo non potevamo illuderci che le nostre tesi avrebbero avuto un benevolo accoglimento.
Ben consapevoli di questo, anzi in un certo senso proprio per questo, abbiamo scritto Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo differenziato, Marsilio Editori, 2020.
Gli obiettivi che ci siamo principalmente posti sono tre.
Il Mezzogiorno continua a non crescere
Il primo è quello di ribadire, numeri alla mano, che il sud del Paese non cresce affatto, malgrado gli ingenti trasferimenti pubblici di cui le regioni meridionali sono destinatarie (secondo l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica, nota a cura di Giampaolo Galli e di Giulio Gottardo del 26 settembre 2020, dai 57 ai 76 miliardi di euro l’anno, dal 15 al 20 per cento del PIL dell’intera area).
A ciò si aggiunga che se il Mezzogiorno langue, con conseguente ampliamento dell’endemico divario, i territori del nord faticano non poco, del che, peraltro, non ci si può stupire in considerazione della (questa sì!) eccezionale austerità cui tali territori sono sottoposti da molti anni, attestandosi gli avanzi fiscali di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, quale che sia la base dati prescelta, conti pubblici territoriali o Banca d’Italia, nell’ordine del 10 per cento circa dei rispettivi PIL regionali.
In questa prospettiva:
- la tesi della valenza esclusivamente individuale dei residui fiscali, secondo la quale non sarebbe corretto valorizzarli e qualificarli come trasferimenti perché essi non sono altro che il frutto dell’applicazione di aliquote di imposta uniformi a soggetti che nello stesso modo devono essere tassati ovunque risiedano, nonché
- l’asimmetrica affermazione (già: perché mai le entrate tributarie non dovrebbero avere una dimensione territoriale, mentre le spese pubbliche sì? Mistero!) secondo la quale nel Mezzogiorno la spesa pubblica sarebbe cronicamente insufficiente (qui, nell’attuale contesto, diventa decisiva la base dati prescelta perché quanto risulta dai conti pubblici territoriali non trova conferma nei dati di contabilità nazionale, vd. pur sempre Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica, Divari territoriali e conti pubblici, nota a cura di Giampaolo Galli e di Giulio Gottardo del 27 ottobre 2020),
impediscono di ragionare in merito all’effetto macroeconomico del saldo aggregato dei prelievi fiscali e delle spese su un’area economica subnazionale/macroregionale.
Residuo fiscale, un avanzo primario agli steroidi
D’altra parte, se l’avanzo primario del bilancio italiano, pari all’1,8% del PIL nell’anno 2019, è considerato da più parti come una delle principali cause della mancata crescita, perché si vuole negare che lo stesso effetto depressivo tanto più si produca su un’area economica costretta, nel combinato aggregato di prelievi e spese, ad avanzi ben più consistenti del dato nazionale?
Chi elude il confronto su questo snodo problematico, che a noi sembra decisivo, non vuole evidentemente ammettere che esso costituisce una delle principali ragioni della asfittica (per non dire nulla) crescita economica italiana e dunque dell’insostenibilità finanziaria dell’intero sistema, a sua volta conseguenza di un’evidentissima anomalia, quella che si concretizza nel fatto che da decenni il PIL e le risorse disponibili per beni e servizi pubblici provengono in misura significativamente maggiore da una sola parte del Paese (ne prende atto, recentemente, pur condividendo la tesi della valenza individuale e non territoriale dei residui, lo scrittore che si nasconde dietro al nom de plume Rutilio Namatiano, Il residuo fiscale non significa nulla, ma…, Reforming.it, 27 novembre 2020).
Ridurre l’intermediazione statale
Il secondo obiettivo è di evidenziare che in un contesto come quello che abbiamo sinteticamente descritto non ci si può stupire se le regioni, che costituiscono il cuore produttivo del paese, stiano cercando di utilizzare l’unico strumento che l’ordinamento mette loro a disposizione, quell’art. 116, co. 3, Cost. che consente di far partire un negoziato bilaterale con il governo al termine del quale, e sempre che l’intesa sia approvata a maggioranza assoluta dalle camere, dovrebbero essere riconosciute ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie elencate nella medesima norma costituzionale.
Il fine è quello di attenuare l’impatto dell’intermediazione statale gestendo in modo più efficiente competenze e funzioni oggi appannaggio dello Stato. Si tratta di un riconoscimento che non può che accompagnarsi all’attribuzione delle risorse necessarie a svolgere i nuovi compiti, risorse che, lo si dimostra nel libro, non potranno trarsi da tributi e entrate propri (altrimenti si assisterebbe ad un ingiustificato ulteriore inasprimento della pressione fiscale nei confronti dei residenti nelle regioni ad autonomia differenziata), ma esclusivamente, stante l’art. 119 Cost., da quote di partecipazione al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio.
Qualora il PIL delle regioni ad autonomia differenziata crescesse anche in ragione delle nuove competenze attribuite, è evidente che ciò renderebbe disponibili maggiori risorse sia alle regioni, per la loro quota di compartecipazione, sia allo Stato stesso, per la parte complementare, oltretutto certamente maggioritaria.
L’evidenziato aspetto ha dato origine a un vivacissimo dibattito, contraddistinto da reazioni, dai toni molto accesi, pervase dal timore, a nostro avviso completamente ingiustificato, che il regionalismo rafforzato potrebbe consentire alle regioni più ricche di appropriarsi di risorse altrui (!) a scapito delle altre, le quali vedrebbero in tal modo ridursi la loro attuale dotazione finanziaria.
Il gettito e il territorio
Atteggiamento questo da cui traspare un doppio pregiudizio: il primo, ideologico-culturale, risiede nell’idea che non sia possibile aumentare la propria ricchezza (e dunque trattenere più risorse) senza che qualcun altro si impoverisca (disponga di meno risorse); il secondo, giuridico-costituzionale, nega alle entrate fiscali una dimensione territoriale, nonostante l’art. 119 Cost., nella versione vigente, sia chiaramente ispirato al principio di territorialità nell’attribuzione del gettito fiscale.
Da esso deriva quindi un’aspettativa giuridicamente fondata di veder utilizzato il gettito prioritariamente sul territorio da cui proviene, fatta salva la quota che, in logica perequativa, deve essere riconosciuta allo Stato, al quale è attribuito dalla Carta fondamentale il compito di garantire, su tutto il territorio nazionale, i livelli essenziali (che non vuol dire uniformi) delle prestazioni attinenti ai diritti civili e sociali che danno corpo alla cittadinanza.
Il terzo attiene alla necessità di rimarcare che ogni autentico processo di federalizzazione degli ordinamenti accentrati non dovrebbe prescindere dal riconoscimento di concrete forme di autonomia tributaria agli enti territoriali, giacché solo in tal modo si può aspirare alla realizzazione dei principi di autonomia-libertà-responsabilità. Gli strumenti del federalismo fiscale dovrebbero quindi essere prioritariamente individuati nei tributi, garantendo che nel ricorso ad essi il potere impositivo segua il potere di spesa.
È chiaro, non sono queste le traiettorie dei percorsi che mirano ad arrivare all’autonomia differenziata, né potrebbero esserlo, e ciò in quanto il disegno del sistema di ripartizione delle risorse quale risulta dalla riscrittura del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione ad opera della l. cost. n. 3 del 2001 si è fondato sull’idea secondo la quale i profondi squilibri tra i diversi territori impongano di fare riferimento a tributi omogenei, istituiti e disciplinati dallo Stato (ciò vale non solo per i tributi erariali, ma anche per i c.d. tributi propri derivati), perché sono questi ultimi che meglio garantiscono la progettazione e la realizzazione dei meccanismi perequativi.
Un federalismo statalista
Il federalismo quale esce dalla riforma costituzionale e dall’attuazione che di essa si è data nella l. n. 42 del 2009, che, a sua volta, è il frutto dell’atteggiamento particolarmente prudente assunto negli anni precedenti dalla Corte costituzionale, è tutt’altro che competitivo, puntando sull’omogeneità delle forme di prelievo e, quindi, sulla centralità e sulla posizione assolutamente dominante dello Stato quale ente in grado di governare il processo di attenuazione dei divari territoriali.
A vent’anni dalla riforma costituzionale del titolo V, che poteva certo ispirarsi a soluzioni ben più coraggiose, un tale obiettivo è tutt’altro che raggiunto. Anche di questo si dà conto nella parte finale del libro, laddove si è cercato di valorizzare il contenuto autonomistico di quelle peculiari forme di compartecipazione al gettito dei tributi erariali che sono le c.d. riserve di aliquota, vere e proprie “porzioni” di tributo che potrebbero essere riconosciute per finanziare le nuove competenze differenziate e che garantirebbero alle regioni di poter contare su entrate, su cui sarebbe anche possibile intervenire, modulandole, a livello territoriale, che non possano essere messe in discussione nella loro dimensione quantitativa dalle diverse scelte che lo Stato decida di assumere sul tributo la cui aliquota è stata in parte “ceduta” alla regione.
Sullo sfondo la necessità di uscire dalla camicia di Nesso dell’intermediazione statale in modo da consentire alle regioni che hanno il dovere e la responsabilità di trainare l’intero Paese di poter contare sulla possibilità che i continui sacrifici cui sono sottoposte da decenni siano qualcosa di diverso dalla sfiancante fatica a cui è sottoposto, per l’eternità e inutilmente, il mitologico Sisifo.
Andrea Giovanardi è professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trento. Fa parte della delegazione trattante incaricata dalla Regione Veneto di seguire il negoziato con il governo per l’ottenimento dell’autonomia differenziata. Tra le sue pubblicazioni, i volumi L’autonomia tributaria degli enti territoriali (2005) e Le frodi Iva. Profili ricostruttivi (2013).
Dario Stevanato è professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trieste. Fa parte della delegazione trattante incaricata dalla Regione Veneto di seguire il negoziato con il governo per l’ottenimento dell’autonomia differenziata. Tra le sue più recenti pubblicazioni, i volumi La giustificazione sociale dell’imposta (2014), Dalla crisi dell’Irpef
alla flat tax (2016) e Fondamenti di diritto tributario (2019).
Foto: Benvenuto di Giovanni, Le Finanze del Comune in Tempo di Pace e in Tempo di Guerra. Siena, Archivio di Stato, Museo delle tavolette di Biccherna.