Le fiabe italiane non vanno in pensione

Rieccoci. In attesa delle riaperture, è ripreso (o meglio, mai cessato) il dibattito tutto italiano su quale modello di sviluppo vogliamo e dobbiamo perseguire, ma solo in subordine alla questione che da lustri è al centro del declino italiano: le pensioni. Come la famosa pubblicità di un caffè dei tempi che furono, ogni momento è quello giusto per mettere in cantiere nuove ondate di pensionamenti. Tanto, le coperture di fantasia non ci mancano.

A fine anno scade la misura, tanto ridicola quanto nociva, nota come Quota 100. Un flop molto costoso, nato da alcune cervellotiche fallacie convergenti. Prima fra tutte, il feticcio assai italiano della staffetta generazionale, che a intervalli regolari ci ammorba come l’altra idiozia del contrasto d’interessi per risolvere l’evasione fiscale.

Quota 100 e il tesoretto

Inutile ricordare quello che è accaduto: alla fine, del pensionamento anticipato hanno approfittato molte imprese e settori, bisognose di ristrutturare (rectius, ridurre il costo del lavoro), e il pubblico impiego, che si è trovato svuotato e in attesa di una nuova stagione di concorsi, meglio se da raccordare col Recovery Plan.

La misura è costata meno del preventivato, spingendo qualche svalvolato a considerare la minore spesa come un “tesoretto” spendibile, e un diritto acquisito a completare tale spesa. Oggi ci risiamo, con le inevitabili variazioni sul tema. Ad esempio, l'”allarme democratico” sullo scalone che dal prossimo primo gennaio dovrebbe ripristinare le norme della legge Fornero, con un balzo in avanti di un quinquennio per gli aspiranti pensionati.

Mai sia, è tutto un fremito e un vortice di meravigliose idee che ci si potrebbe attaccare un generatore e fare luce sul nostro declino, demografico prima che economico. Riguardo al primo aspetto, in pochi notano che il vero danno di Quota 100 viene dal blocco dell’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, che dovrebbe persistere ancora per alcuni anni e scavare una nuova voragine nei conti pubblici italiani.

Un paese di obsoleti tecnologici

Ma questi sono dettagli, rispetto ai “progetti di vita” di una popolazione che pare ambire alla pensione già dai primi cicli scolastici, sia da docente che da discente. Il nuovo slogan è “ora c’è la rivoluzione digitale, le aziende devono svecchiarsi”, che pare razionale ma è una notevole fallacia perché, come detto, guardando ai trascorsi del nostro paese, pare che l’Italia sia una sorta di CERN del mondo, avendo la costante necessità di pensionare torme di dipendenti tecnologicamente obsoleti, a ogni ciclo elettorale.

Nel post pandemia le aziende dovranno per forza ristrutturarsi, è il refrain. Dopo la fine del blocco dei licenziamenti avremo espulsioni bibliche dal mondo del lavoro, quindi meglio accomodare quante più persone direttamente in pensione, e non pensiamoci più.

Il contributivo è a ripartizione

Questo tema si affianca all’altro spin propagandistico, che vede la pensione anticipata in regime di ripartizione come se fosse a capitalizzazione. Sono affascinato da queste argomentazioni perché non riesco a separare l’ignoranza dalla malafede politico-sindacale.

“Col contributivo, ognuno è padrone dei propri contributi, quindi ognuno vada in pensione quando crede, all’incirca”. Un peccato che il contributivo resti un sistema a ripartizione, dove gli attivi pagano i pensionati e i contributi non sono “proprietà” del lavoratore.

A margine, se qualcuno tra voi sospirasse per il modello cileno a capitalizzazione, se la faccia passare: quel modello è morto, e non da oggi. Sono molti anni che ve lo dico, causando spasmi tra i più liberisti tra voi. Non posso farci nulla, la mia funzione è quella di deludere i credenti. Il mio ateismo è corrosivo, evidentemente.

Quota 100, fame e freddo

Quando, al momento dell’approvazione della deforma gialloverde, scrissi che “a Quota 100 c’è fame e freddo” non stavo facendo esercizio di divinazione ma solo constatando che il sole sorge a est. Oggi ci risiamo, e la collezione di “soluzioni” per mantenere la flessibilità pensionistica che preserva i “progetti di vita” si è ulteriormente ampliata.

Ampliata ma sempre nel solco dell’equivoco, se così vogliamo chiamarlo, per cui il pensionato contributivo anticipato è, nella quasi totalità dei casi, un pensionato che farà la fame o qualcosa che le somiglia sinistramente. Ad esempio, alcune proposte di uscita anticipata col contributivo richiedono la revisione al ribasso della soglia minima di reddito, oggi fissata a 2,8 volte l’assegno sociale, per chi ha iniziato a lavorare dal 1996.

Che significa? Che si può anche andare in pensione “prima”, ma con assegno falcidiato. E come potrebbe essere altrimenti? A quel punto, sentiremo guaire: sono pensioni da fame, vergogna! E tosto sorgeranno le proposte di integrazioni al (nuovo) minimo, a carico della fiscalità generale.

Avremo, detta in soldoni, l’esempio plastico di quanto è fallace l’altro caposaldo della propaganda sindacale. Quello secondo cui, se separassimo la previdenza (gestione “pura” dei contributi e delle prestazioni pensionistiche) dalla assistenza (importi a carico della fiscalità generale, cioè di coloro che ancora pagano le tasse) la prima sarebbe in confortevole surplus.

Previdenza dopata da assistenza

Il che è, appunto, fallace: se depurassimo gli assegni previdenziali dalle componenti a carico dei contribuenti, scopriremmo che quegli assegni sono dopati, chi più, chi meno, e certamente lo sono a livello aggregato.

Mettiamoci poi altre soluzioni ingegnose, del tipo contribuzioni figurative e pensioni “di garanzia” per i giovani, e avremo il cartellino del prezzo a carico della fiscalità generale che somiglia a un giro per shopping nel Quadrilatero milanese. Questa è assistenza che integra la previdenza, presente e futura.

E allora, facciamo morire di fare milioni di persone?, diranno molti tra voi. No, ovviamente. Ma mentre strappiamo alla fame milioni di pensionandi, ricordiamo che è il regime lassista di prepensionamenti a ondate ciò che ha creato questa situazione, nel corso dei decenni. Il successivo collasso demografico ha fatto il resto, eppure sembra che quest’ultimo non sia mai avvenuto.

Tutto si tiene: alto costo del lavoro relativo a una produttività abbattuta, welfare sgangherato e regressivo, declino demografico. È il sistema intergenerazionale fallito che giunge da lontano per perseguitarci e mandare al macero le nostre illusioni. Però la soluzione c’è sempre, si chiama fiscalità generale. Assomiglia a un cappio.

La strategia della pensione

Oggi ci troviamo in una condizione in cui non esistono scorciatoie praticabili, eppure la politica ritiene di non dirlo, e continuare a somministrare psicofarmaci che danno allucinazioni in cui i vincoli economici e di realtà scompaiono. L’immaginazione al potere.

Ogni momento è quello giusto, per prepensionare. Sia una improbabile “rivoluzione tecnologica” o costi del lavoro insostenibili nel paese che da lustri schianta l’unica variabile che determina gli standard di vita nel lungo periodo, la produttività, la pressione a spingere fuori dal mercato formale del lavoro quote crescenti di popolazione è altissima.

Ma non temete: basta scorporare la previdenza dall’assistenza, e scopriremo di essere facoltosi e in grado di pensionare i cinquantenni, persino in un paese in depressione demografica. Che poi è la variazione sul tema dell’altro celebre topos italiano: scorporiamo il deficit dal deficit, e saremo in equilibrio.

Ma tranquilli, ora scatta il piano B della politica: le deroghe. Salveremo quanti più pensionandi possibile, scoprendo quanti sono usurati, logori, fragili. E ti credo: in un paese dove da tempo immemore si viene percossi quotidianamente dalla realtà, riportare danni psicofisici permanenti è un attimo.

Foto di Trixie Liko da Pixabay

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