In questi giorni, in Regno Unito, è in corso una discussione straniante, di quelle a cui noi italiani siamo abituati da sempre. Una discussione fatta di ipotesi prive di senso, di schiacciamento della prospettiva temporale in modo da indurre a credere che la transizione sia breve e indolore, di minacce negoziali rivolte alle imprese da parte di un capo di governo tutt’altro che di sinistra. Nel frattempo, tutt’intorno, si sentono scricchiolii sinistri e la nave rischia di finire sugli scogli. Tutto per effetto della rimozione della realtà.
La premessa è che il Regno Unito, dopo aver “ripreso il controllo” del proprio destino con la Brexit, anche se i fatti dicono l’opposto, ora cerca disperatamente di attenersi in modo scrupoloso alle premesse e ai precetti di quell’esito referendario. Plauso per la coerenza, sin quando dura, ma così facendo si producono momenti quasi comici.
“Le aziende si fottano”
Il sistema di immigrazione britannico, post Brexit, prevede un sistema di punteggi per competenze e soglie minime di retribuzione. L’idea è quella di portarsi a casa solo lavoratori qualificati. Che ha un qualche teorico senso ma finisce a schiantarsi contro una realtà post pandemica e post-Brexit che ha visto l’uscita di lavoratori immigrati, comunitari e non, operanti spesso nelle famose mansioni umili che troppi di noi danno per scontate quando il mattino si alzano dal letto.
Camionisti, macellai, raccoglitori di frutta. Un paese che si sta fermando, visto che il reingresso è precluso dalle soglie reddituali del nuovo sistema di immigrazione. Le aziende rumoreggiano, chiedono e supplicano Boris Johnson di derogare. La deroga arriva, per poche migliaia di lavoratori dell’alimentare e camionisti, ma ci sono seri dubbi che avranno impatto avvertibile, anche perché i nuovi visti hanno durate talmente brevi da essere fortemente disincentivanti.
La tensione con le imprese monta. Johnson, già famoso per aver detto “le aziende si fottano” perché troppo legate al Remain, si presenta al congresso annuale dei Conservatori e ribadisce quanto già detto nelle ultime settimane: non risolveremo questo problema “tirando la leva dell’immigrazione”.
Ora, disse Johnson, puntiamo a un paese “ad alti salari, alte competenze e alta produttività”. Che è sicuramente ambizione degnissima e da sottoscrivere ma che mal si concilia con l’esigenza basilare di trovare macellai, raccoglitori di frutta e camionisti, ora. Ma anche camerieri e personale per le case di cura e di riposo. A meno di pensare di importare Ph.D dal resto del mondo per svolgere queste mansioni, allettati dal privilegio di poter servire il popolo di Sua Maestà.
Sogni automatizzati
È talmente palese l’assurdità delle tesi di Johnson, a difesa di una situazione quasi interamente autoinflitta, che sarebbe inutile anche commentarla oltre. Se non fosse che in Regno Unito, alle prese con una situazione complessiva che rischia di virare sul tragico entro breve, si apre un surreale dibattito, che si porta dietro anche illustri commentatori.
Le aziende, sconcertate, ribattono suggerendo un sistema di sponsorizzazione dell’immigrazione, a cura delle imprese interessate, con salari uguali a quelli esistenti all’interno (un filo fallace, ma passiamo oltre) e con una sorta di sovrattassa del 7% a carico dei datori di lavoro per gestire i costi dell’operazione. Chi propone ciò è Lord Wolfson, proprietario di una catena retail e Brexiter convinto, sia pur di maniere miti, che sponsorizzò quella boiata pazzesca di premio che una decina di anni addietro “scoprì” come uscire dall’euro in un weekend, dando fiato a torme di treccartari italiani.
Apriti cielo: Wolfson viene incatramato dai fedeli Brexiter con gli stessi canoni stilistici che quotidianamente vediamo sui social network in giro per il mondo. Johnson, che è pur sempre un politico di grande mestiere, tenta di mandare un messaggio minatorio alle imprese, del tipo “ora basta, risolvete la situazione con gli strumenti che avete, nel quadro delle scelte del popolo britannico, e puntate alla produttività. O io potrei dare una spinta al tutto, alzando il salario minimo”.
Il magico salario minimo
E qui arriviamo alle dinamiche squisitamente italiane. Cioè del paese che ha un costo del lavoro devastante rispetto alla effettiva produzione di valore aggiunto ma che, malgrado ciò, vede un numero elevato di politici spingere per l’introduzione di un salario minimo ben superiore ai minimi di molti contratti collettivi, “perché così spingiamo la produttività e l’innovazione”.
Pensieri di pura assurdità e massima propaganda. Ci sono mansioni che non possono essere automatizzate, come noto; almeno, al momento. Magari arriverà il giorno in cui riusciremo ad avere robot che colgono i frutti senza distruggerli, quelli che macellano il bestiame a ciclo completo e i camion a guida autonoma. Ma non pare per domani né per dopodomani.
In ipotesi di aumento del costo del lavoro, sia per dinamiche di mercato che istituzionali, cioè di aumento di salario minimo (che soprattutto venga fatto rispettare in modo implacabile e non sia una grida manzoniana), alcuni settori vedranno un aumento di concentrazione, con espulsione di aziende inefficienti e non in grado di sostenere gli investimenti di automazione.
Dopo di che, un aumento del salario minimo non farà nulla per smantellare il settore informale, cioè il sommerso a produttività bassa; anzi, potrebbe gonfiarlo ulteriormente se molte aziende, anziché chiudere, decideranno di spostarsi in ambiti grigi di quel tipo.
Facciamola semplice. E rapida
Tra gli altri esiti di concentrazione da automazione, tralasciando gli impatti sui prezzi al consumo (che dipendono dalla struttura di mercato e da eventuali azioni antitrust), possiamo immaginare la sostituzione di produzioni domestiche con importazioni, a causa della chiusura delle aziende unfit per il cambiamento. Che non è esattamente ciò a cui punta un governo nazionalista, sano o bacato che sia. Certo, il governo pro tempore deve anche cercare di redistribuire l’aumento di produttività tra più beneficiari.
Per avere un’economia ad alta produttività, poi, serve un sistema educativo attrezzato e raccordato al sistema delle imprese; non basta schioccare le dita o decretare aumenti di salario minimo. E questi sono processi di non breve periodo, cioè incompatibili con la propaganda politica.
Quindi, comprendo che Johnson stia sulla difensiva e voglia una Britannia fatta di scienziati che dominano il mondo con le loro invenzioni. Chi non lo vorrebbe? Ma il modo in cui mescola i piani temporali, cercando di mostrarsi inflessibile sull’immigrazione anche se non ha letteralmente materiale umano per far funzionare l’economia, è a dir poco demenziale.
Ma, per l’ennesima volta, scopriamo il tratto “italiano” della comunicazione politica di Johnson. Cioè quello populista che fa leva su una devastante ignoranza degli elettori.
Guai a grappoli
Nel frattempo, in ordine sparso, il Regno Unito si accinge alla guerra con la Ue sul Trattato di ritiro, a causa della impossibilità di gestire la condizione dell’Irlanda del Nord. E tuttavia, repetita iuvant, sono loro ad aver firmato quel trattato di ritiro, non altri (vedi anche foto qui sopra). Scoprire ora che era un libro dei sogni irrealizzabili o, peggio, un tentativo di truffa ai danni di ventisette paesi europei, non è esattamente un titolo di merito per Johnson.
E non finisce qui. Coi prezzi del gas alle stelle in modo in apparenza non transitorio, si moltiplicano le grida di allarme delle imprese, non solo energivore, a Johnson (nel frattempo in spiaggia a Marbella), affinché il governo si faccia carico del maggiore onere. Altrimenti, molte imprese soccomberanno. Si parla ormai di elevato rischio di crisi industriale per il Regno Unito. La Brexit c’entra relativamente poco, qui. Una politica di sicurezza energetica piuttosto “distratta” ha causato i danni che vediamo oggi. L’insularità del Regno Unito non aiuta.
Un costo, quello dei sussidi per tenere in vita le aziende, che rischia di devastare lo Scacchiere, cioè il Tesoro britannico. E già sono in corso le schermaglie tra il ministro delle aziende, Kwasi Kwarteng, e il Cancelliere Rishi Sunak, noto conservatore fiscale con largo seguito nella base tradizionale del partito.
L’uomo con gli attributi
Questa crescente complessità e criticità del quadro economico complessivo affronta un premier che vive di semplificazioni, è avverso alla pianificazione e ha una spiccata tendenza a credere che i problemi evaporino semplicemente ignorandoli. Se ci pensate, sono tutti tratti di cosiddetta leadership che noi italiani conosciamo sin troppo bene.
Però Johnson sostiene di avere “gli attributi” o, detto in inglese, “le viscere” per riuscire nel compito. Chissà, forse sarà proprio questo a differenziarlo dai suoi colleghi italiani. Ma io non tratterrei il respiro nell’attesa.
Photo by No.10 on Flicker