Siate realisti, chiedete l’impossibile

La linea di condotta di Romano Prodi, da qui alle elezioni politiche del 2006, è ormai compiutamente delineata: da un lato, il tentativo di accreditarsi come leader di una coalizione “etica”, cioè di fatto lo spostamento della logica della competizione politica da confronto sui programmi a radicale delegittimazione dell’avversario; dall’altro lato, la reiterata denuncia di quello che ai suoi occhi appare come il progressivo “sgretolamento” economico del paese, promettendo mirabilie ma -ahimé- omettendo di indicare in modo puntuale gli interventi da effettuare, cioè quella cosa chiamata programma. Anche oggi, Prodi applica questo mix sudamericano (ma per non offendere i sudamericani occorrerebbe ridefinirlo semplicemente prodiano, più calzante) di politica politicante nel corso dell’intervista a Radio anch’io, su RadioRai. Dapprima parla di “sfascio etico”, sostenendo che i condoni sono il premio e l’incentivo a non rispettare le leggi, poi afferma che la riduzione della disoccupazione, avvenuta in questi anni, è il risultato di sanatorie e crescita abnorme del lavoro precario; da ultimo, suggerisce qualche ricetta di politica economica alla dottor Balanzone, suo illustre concittadino, quale l’esigenza di chiudere il rinnovo del contratto del pubblico impiego

“per rimettere in sesto il potere d’acquisto delle retribuzioni, magari diminuendo le imposte sul lavoro, in modo che i lavoratori ricevano in tasca più soldi. Questo – conclude – serve a rilanciare i consumi. Non dare soldi a coloro che tanto i consumi non li aumentano”.

Andiamo con ordine. I condoni suscitano sempre un misto di fastidio e irritazione, sin dai tempi dei governi democristiani, di cui Prodi è stato parte (1978, ministro dell’industria). Abbiamo sempre la speranza che anche il governo Berlusconi, prima o poi, si convinca che non è possibile attendere una ripresa che non arriva e nel frattempo turare i buchi di bilancio riaprendo dei termini di condono su tutto ciò che è condonabile. Ma questo è un altro discorso, frutto dell’impostazione attendista tremontiana, che sfortunatamente è stata sconfessata dagli eventi e da una congiuntura che resta cocciutamente avara con il nostro paese. Ma se il condono venisse utilizzato anche come strumento necessario a determinare l’emersione del sommerso, come il governo afferma, allora potrebbe essere ritenuto accettabile. Per convincersi di ciò, basta leggersi le statistiche sulle verifiche fiscali effettuate dall’Agenzia delle Entrate per prendere atto che i controlli proseguono, quanto e più degli anni passati, e che lo Stato non ha abdicato all’anarchia fiscale. Riguardo il mercato del lavoro, i dati Istat parlano di un tasso di disoccupazione italiano attualmente all’8 per cento, corretto per la stagionalità, e questo dato di per sé dovrebbe essere valutato positivamente, poiché rappresenta l’inversione di un trend che durava da svariati decenni, quello di una disoccupazione crescente o, nella migliore delle ipotesi, stazionaria. Ha ragione Prodi quando afferma che in realtà si tratta di una crescita dell’occupazione precaria e senza futuro, che stiamo condannando una generazione alla precarizzazione a vita e ad una vita lavorativa che si concluderà senza alcuna pensione? Forse sì, ma solo in parte. In primo luogo, la precarizzazione e la flessibilità esistono da sempre in questo paese, si chiamavano e si chiamano tuttora lavoro nero, una piaga ultradecennale, figlia della “vendetta del mercato”, che aggiusta i propri prezzi di fronte a normative soffocanti e disincentivanti dell’imprenditorialità. Prodi spieghi come ritiene di combattere il lavoro nero, e magari spieghi al Tg3 che le “morti bianche” nei cantieri esistevano anche ai tempi del glorioso governo di centrosinistra del 1996-2001. Ma Prodi spieghi anche ai propri elettori che la società italiana ha una struttura fatta di dualismi: un dualismo territoriale, che esiste dall’Unità d’Italia, ed un dualismo tra insider dell’occupazione “protetta”, ed outsider precari e/o in nero, e che il sindacato continua imperterrito a elargire i suoi niet ad ogni proposta di ampliare l’area di inclusione sociale, barattandola con maggiore flessibilità da parte di chi si trova dal lato protetto del mercato del lavoro. Come una vera riforma delle pensioni, che porti tutti i lavoratori al modello contributivo puro, abbandonando il sistema a ripartizione e soprattutto le idiozie ideologiche che vorrebbero alcuni milioni di immigrati a fare da puntello per il mantenimento dello status quo previdenziale. Prodi spieghi anche che l’Irap, introdotta nel 1997 dal suo governo, di fatto rappresenta una tassa che i datori di lavoro pagano sull’occupazione, anziché dettare ricette vecchie come il cucco sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale tra retribuzione lorda e netta, cosa che in cinque anni della passata legislatura il governo di centrosinistra non è mai riuscito a compiere. Purtroppo, l’ultimo Prodi è diventato una specie di Zelig, ed ha finito col prendere le sembianze ideologiche di un rifondatore comunista: parla di spesa sociale, promette mari e monti, ma dimentica sistematicamente di indicare le coperture finanziarie per mantenere queste mirabolanti promesse. Ieri sera, a Ballarò, abbiamo assistito al confronto tra Fitto e Vendola. Il primo è apparso argomentativo, razionale, un amministratore puntiglioso che conosce le cifre di cui parla. Il secondo, per non smentire la propria fama di pasionario della politica italiana, oltre a sbuffare come una vaporiera ed emettere risolini isterici alle argomentazioni dell’avversario (rischiando peraltro di portare acqua al mulino dei più triti luoghi comuni da trivio contro la sua persona), ha continuato a ripetere ossessivamente il mantra del reddito di ultima istanza, vecchia icona della sinistra antagonista. Quando Fitto, senza particolare aggressività, gli ha chiesto come pensa di finanziare tale forma di sussidio sociale, Vendola è diventato paonazzo ed ha sventolato l’ormai abituale libretto informativo sulla sanità regionale, berciando: “tagliando spese come quella sostenuta per stampare questo fascicolo propagandistico!”

La politica italiana della seconda repubblica ha subito una mutazione genetica: dal trasformismo al populismo, alla pura demagogia. Restiamo in attesa delle nuove avventure di Masaniello Prodi e della sua incazzosa ciurma.

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