Riforma della Costituzione

All’indomani della definitiva approvazione di una riforma costituzionale che l’opposizione ha, come da copione, ribattezzato dissolution e dipinto come portatrice di sciagure bibliche, è utile fare una piccola epitome.
La riforma prevede, in estrema sintesi, l’attenuazione del bicameralismo perfetto, retaggio dell’arcaismo istituzionale italiano, e l’introduzione di un Senato federale che dovrà legiferare, secondo un principio di sussidiarietà verticale (che non garantisce affatto contro il centralismo), sulle materie di competenza comune tra Stato e Regioni. La Camera legifererà sulle materie relative alla competenza statale, con alcuni correttivi a favore della richiesta di revisione da parte del Senato. I punti centrali della riforma sono rappresentati da devolution e poteri di Primo ministro e capo dello Stato.

Riguardo la prima, alle Regioni spetterà competenza esclusiva sulle materie afferenti assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale. Tornano a essere di competenza dello Stato la tutela della salute, le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale, l’ordinamento della comunicazione, l’ordinamento delle professioni intellettuali, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia, l’ordinamento di Roma; la promozione internazionale del made in Italy. Come si nota, pur essendo stato introdotto il principio del federalismo sanitario, è stato mantenuto allo Stato il diritto-dovere di tutela della salute. Ciò equivale, di fatto, al mantenimento dei cosiddetti Livelli Essenziali di Assistenza (L.E.A.), che oggi caratterizzano un Servizio Sanitario Nazionale già frammentato e federalizzato, con buona pace di Piero Fassino, che paventa “la creazione di venti Sanità differenti”. Il Primo ministro, che cessa di essere definito “Presidente del Consiglio dei Ministri”, dismette quindi anche la veste consociativamente rassicurante di primus inter pares, che ne ha caratterizzato il ruolo dalla scrittura della carta costituzionale ad oggi, per divenire responsabile della determinazione dell’azione di governo. Si può chiamare premierato forte, come l’idea di cui per qualche tempo l’opposizione si innamorò, salvo poi ritrarsi subitaneamente di fronte alla richiesta “operativa” da parte della maggioranza di lavorare sul progetto. Abbiamo sentito illustri costituzionalisti progressisti paragonare con orrore questo progetto alla costituzione israeliana. Le cose non stanno esattamente in questi termini, ma abbiamo il sospetto che per qualcuno il modello di riferimento resti quello sovietico.

Il capo dello stato vede affievolite (ma non certo espropriate) le proprie competenze, ma ciò non dovrebbe suscitare timori circa un’ipotetica dittatura del premier, visto che l’attuale costituzione, pur prevedendo un ampio sistema di garanzie, non ipotizza quella sorta di diarchia e coabitazione tra presidente e premier di cui invece una parte politica si è servita, in un passato recente, per raggiungere surrettiziamente i propri obiettivi strategici. La riforma prevede, poi, anche l’aumento del numero di giudici costituzionali scelti dal potere politico, segnatamente dal Senato. Probabilmente, questo è il sottoprodotto perverso di reazione ad una casta giudiziaria che non riesce a non esorbitare dalle proprie attribuzioni originarie.

Interessante anche la norma anti-ribaltone: in qualsiasi momento la Camera potrà obbligare il Primo ministro alle dimissioni, con l’approvazione di una mozione di sfiducia firmata almeno da un quinto dei componenti (ora è un decimo). Nel caso di approvazione, il Primo ministro si dimette e il presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera. Il Primo ministro si dimette anche se la mozione di sfiducia è stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. Ciò vuol dire che, malgrado la recente introduzione del mostriciattolo proporzionalista, le speranze neo-centriste di quanti vagheggiano cambi di maggioranze nel corso della stessa legislatura sono destinate ad essere frustrate. Cardine della riforma, di qualsiasi riforma, è l’aspetto dell’acquisizione delle risorse fiscali. A questo riguardo, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge di riforma costituzionale sarà assicurata l’attuazione del federalismo fiscale. Sono fissati dei limiti per cui in nessun caso l’attribuzione dell’autonomia impositiva alle Regioni, alle Province, alle città metropolitane e ai Comuni può determinare un incremento della pressione fiscale complessiva. Si tratta di un principio di “conservazione fiscale”, ma è forse viziato da una sorta di paternalismo centralista. Se una regione non trova di meglio che alzare le tasse per far quadrare i conti, dovrebbero essere i cittadini-elettori a dire l’ultima parola sulla desiderabilità sociale di tale scelta. Ma probabilmente si è temuto per la destabilizzazione del sistema produttivo che un’eccessiva libertà di tassare avrebbe rischiato di provocare. Viene introdotto il principio dell’interesse nazionale come contrappeso alle spinte centrifughe indotte dal federalismo.

Riteniamo che il vero banco di prova di questa riforma, in caso di superamento dell’esito referendario, sarà rappresentato proprio dall’aspetto fiscale. L’attribuzione di risorse agli enti locali, ed i meccanismi solidaristici verso le regioni più povere rappresenteranno il momento di maggiore criticità per il successo o il fallimento della riforma. In quella circostanza, sarebbe auspicabile che il governo riuscisse a dar prova di minore analfabetismo costituzionale rispetto a quanto fatto nella finanziaria 2004, con l’indicazione puntuale delle categorie di spesa degli enti locali da tagliare, materia che non pertiene al governo stesso, anche sotto l’attuale costituzione.

La riforma doveva e poteva essere realizzata cercando il più ampio accordo bipartisan possibile, ma dopo alcuni decenni di commissioni di studio, bicamerali ed iniziative unilaterali che hanno portato all’esplosione della conflittualità tra Stato e Regioni, realisticamente non si poteva ambire a tanto. Come scriveva Indro Montanelli, la costituzione italiana non è implicitamente democratica per il solo fatto di essere sorta dall’antifascismo. L’inadeguatezza della nostra carta costituzionale in termini di produttività del legislatore, pur non rappresentandone l’unica determinante, è drammaticamente evidente ove si pensi al non-senso del bicameralismo perfetto, probabilmente l’unico rimasto al mondo. Naturalmente, nessuna costituzione garantisce contro l’instabilità indotta dalla frammentazione patologica del sistema politico e da leggi elettorali cervellotiche come il mattarellum, che qualcuno insiste a definire maggioritario, ma questo è un altro discorso.

UPDATE: nuova impresa dei somari de l’Unità. Scrivendo di “stravolgimento dell’iter legislativo” per definire la fine delle camere-fotocopia, il foglietto di Padellaro riesce a scambiare bicameralismo con bipolarismo, e quindi ci risvegliamo scoprendo che la riforma decreta “la fine del bipolarismo perfetto” (magari ne avessimo mai avuto uno…). Ma il vero vulnus sarebbe l’indebolimento del ruolo del capo dello Stato, che “non può più sciogliere le camere e dare l’incarico al nuovo governo”. Ma all’Unità pensano che queste prerogative fossero esercitabili motu proprio o non, piuttosto, il frutto di una liturgia che prevede altri e ben più robusti meccanismi di controllo della legittimità costituzionale, che la riforma non ha intaccato? L’affluente dell’ignoranza si getta nel grande fiume della malafede politica…

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