Tornato a pontificare sugli italici destini dopo aver affrontato una delle prove più difficili riservate agli umani ed alla loro finitezza, oggi Eugenio Scalfari fa il punto dell’attività di governo nel dopo-Finanziaria. E lo fa con vista lunga, addirittura proiettata alle elezioni amministrative del prossimo maggio, per indicare al litigioso sinistra-centro la strada maestra della severa e serena attuazione del programma. Diciamo subito che, per Scalfari, esiste oggi in Italia una sola persona in grado di riassumere in sé le virtù riformiste di cui il paese disperatamente necessita, per uscire dalla barbarie del quinquennio berlusconiano, e questo deus ex machina si chiama Romano Prodi.
Al Professore, Scalfari perdona tutto tranne l’eccesso di condiscendenza ai voleri dei riottosi compagni di maggioranza, e si spinge addirittura ad invocarne la “dittatura”. Per giungere a questa bizzarra prescrizione (bizzarra perché con robusta dose di ipocrisia ignora deliberatamente le dinamiche ed i rapporti di forza di coalizione), Scalfari parte dal quesito di fondo che arrovella gli analisti del teatrino nazionalpopolare: perchè il gradimento del governo è così basso?
Dunque veniamo a quelle motivazioni. Difetto di comunicazione? C’è stato, ma non basta. Mancata concertazione? Non basta. Mancato riconoscimento degli interessi che la Finanziaria penalizzava? Questa è certamente una ragione, ma a mio modo di vedere è anch’essa insufficiente. Impazzimento del paese? Pericoloso dirlo e comunque non spiega perché quello stesso paese si dimostrò saggio fino a giugno e cominciò a impazzire in luglio – agosto. Una causa scatenante ci sarà, l’eventuale impazzimento ne è dunque soltanto l’effetto. Lo stesso dicasi per lo scatenamento degli egoismi e il prevalere dello spirito corporativo. In ciascuna di queste spiegazioni c’è un briciolo di verità ma non c’è la verità intera e neppure la sua maggior parte.
Dopo il preambolo, Scalfari enumera le motivazioni della crescente disaffezione degli italiani dal governo Prodi:
1. Gli italiani avevano caricato la Finanziaria di esorbitanti aspettative che essa non era in grado di appagare.
2. Alcuni ceti, in particolare il nerbo di chi aveva votato per il centrosinistra, si aspettavano un aumento immediato e consistente di benessere e di felicità.
3. La rissa all’interno della nuova maggioranza ha fortemente indebolito se non addirittura distrutto l’immagine d’una “leadership” autorevole e solida.
4. La missione del centrosinistra non ha avuto il risalto necessario e comunque non ha convinto.
5. La debolezza della leadership ha trasformato in realtà attuali alcuni difetti latenti del carattere nazionale: l’egoismo, la perdita di visione condivisa, l’antipolitica, l’antiparlamentarismo, la vocazione anarcoide. Vizi antichi e latenti, emersi d’un balzo e tutti insieme. Queste, a mio avviso, sono le cause del fenomeno che ora bisogna curare e contenere. Con una prima verifica tra cinque mesi.
Traspare, da questi punti di analisi, la forte vocazione costruttivista di Scalfari, da oltre mezzo secolo alla ricerca di una divisa da far indossare a quegli anarcoidi di italiani. Ma traspare anche una volontà di rifiutare la dialettica democratica tra due coalizioni, il rifiuto di legittimare quello che non è l’avversario, ma il “nemico”. E, soprattutto, traspare una pulsione all’abuso di posizione dominante che mal si attaglia alle ripetute professioni di liberalismo del nostro Fondatore. Così, per Scalfari, la “missione” (anche la scelta delle parole non è certo casuale) del centrosinistra non avrebbe avuto il risalto necessario. Un vero peccato, vista l’occupazione militare del cosiddetto servizio pubblico attuata dalla maggioranza già all’indomani del voto. E ancora, Scalfari tenta di scimmiottare la costituzione statunitense, quando scrive che il nerbo (ma quale?) dell’elettorato del centrosinistra si attendeva “un aumento immediato e consistente di benessere e felicità”. Nientemeno. In effetti, una coalizione che ha passato gli ultimi cinque anni dipingendo scenari dickensiani di frigoriferi vuoti già alla metà del mese, e amplificando mediaticamente lo slogan sessantottardo “vogliamo tutto e subito”, trova ora difficoltà a mostrare ai creduli italiani i fiumi di caffelatte e le montagne di marzapane. In fondo, la strategia comunicativa del centrosinistra è stata molto simile a quella berlusconiana: il nuovo, grande miracolo italiano, il campo dei miracoli dove seppellire i fiorini in attesa della loro moltiplicazione. Piuttosto ovvio che il risveglio sia stato sgradevole.
Ma per Scalfari il precetto di base, la chiave di volta per rimettere in linea di galleggiamento il Titanic del sinistra-centro è uno solo: nessuno tocchi Romano Prodi.
Circolano in proposito tra gli addetti ai lavori alcuni errori molto pericolosi. Il primo è quello di attribuire a Romano Prodi la responsabilità del distacco di una parte consistente dell’opinione pubblica. Con la conseguenza di progettare una qualsiasi “exit strategy” dall’attuale presidente del Consiglio.
E’ un gravissimo errore. Prodi è il solo garante dell’alleanza di governo.
Se dovesse cadere Prodi, l’alleanza cesserebbe di esistere perché è lui il solo baricentro possibile e capace di tenere insieme Mastella e Rifondazione comunista, ma perfino Rutelli con Fassino. Per questo del resto fu scelto nel 1996 (e vinse) e per questo fu scelto di nuovo nel 2006 (e vinse di nuovo, nonostante l’handicap del “déjà vu”).
Scalfari non dovrebbe perseverare nell’elargizione di simili torti alla propria ed altrui intelligenza. Prodi non è il baricentro di alcunchè, è solo il felice ostaggio, per pure motivazioni di potere, suo e del suo clan, del massimalismo della sinistra radicale. In un paese normale e culturalmente meno arretrato del nostro, il primo partito della coalizione avrebbe designato il front runner per la carica di premier, senza cercarsi un prestanome pseudofusionista. Ma i diesse hanno preferito inventarsi un leader posticcio, ed imbarcare sulla propria nave la peggior sinistra d’Europa, per arretratezza culturale, analfabetismo economico e pulsioni antioccidentali. Che differenza da Gerhard Schroeder, che ha rinunciato ad una vittoria pressochè certa pur di non allearsi col Linkspartei dei parolai rossi Lafontaine e Gysi. Ma forse il problema sta nell’arretratezza culturale dell’elettorato italiano cosiddetto moderato di sinistra, che tale coalizione ha ritenuto di votare, turandosi ogni possibile orifizio.
Scalfari ha orrore del dilagare di quello che egli definisce “disincanto”, e per questo motivo lancia un accorato appello alla coalizione per evitare di materializzare, con la caduta di Prodi, l’incubo del governo tecnico, quello alla Monti ed alla Montezemolo. Che fare, quindi? Concertazione, la parola magica. Ma anche un bizzarro precetto:
Qui non si tratta di confrontare opinioni e uscirne avendo ciascuno conservato la propria. Qui si tratta di dare a Cesare non il consolato ma la dittatura. Per salvare la res pubblica dallo sfarinamento e dal dominio delle “lobbies”.
Poi la concertazione. Poi i “tavoli” di dialogo e il riconoscimento. Poi un esercizio efficace di democrazia diffusa. Poi il ridimensionamento del clan prodiano che ha procurato più danni che vantaggi. Ma il tutto guidato e dettato dal dittatore.Dittatore di salute pubblica. Nell’antica Roma era prassi legale quando bisognava risolvere problemi gravi ed urgenti. Durava sei mesi, al massimo un anno non rinnovabile. L’errore di Cesare fu di chiederlo e ottenerlo a vita. Ma Prodi non è certo Cesare. Dà piuttosto l’immagine d’un parroco di campagna.
Scalfari ritiene, quindi, che la corte dei miracoli che circonda Prodi sia frutto dell’eccesso di bonomia del Professore, che non si curerebbe particolarmente della scelta dei suoi consiglieri e consigliori. Quanta indulgenza, caro Fondatore! I Rovati sono accidenti della storia, quindi? Occorre un dittatore di coalizione? E come, di grazia, giacchè quello stesso aspirante Cesare non ha i numeri per opporsi all’unica vera dittatura nella maggioranza di oggi, quella della sinistra comunista? Certo, Prodi potrebbe inventarsi un altra manfrina pseudoplebiscitaria, invocando una nuova investitura popolare. Ma crediamo che egli non ne abbia voglia né interesse. Questi sono gli effetti collaterali di un leader di coalizione sprovvisto di un proprio partito, caro Scalfari, lei lo sa benissimo ma continua a fingere di non saperlo. Nel centrodestra c’è un padrone? Forse, ma è stato investito di questa leadership dall’elettorato. Ah si, quell’elettorato moralmente abietto degli antipolitici ed anarcoidi, ai quali magari è stato promesso un pacco di pasta. Ma cosa aveva promesso la sinistra, caro Scalfari? Il frigo pieno, la piena e buona occupazione, l’alba di una Nuova Era fatta di class warfare all’italiana. Quella dei pubblici dipendenti nullafacenti e dei sindacati che li sostengono, delle Coop onnivore, cioè del blocco sociale che sostiene il centrosinistra italiano. Perchè vede, caro Scalfari, noi saremo anche degli sporchi relativisti ma quello che accade oggi in questo paese è banalmente e semplicemente una lotta tra corporazioni, tra quelle stesse lobbies che suscitano in lei questa ripulsa etica. Altro che pursuit of happiness alla bolognese.
Come dovrebbe agire Prodi dopo il prossimo, ennesimo rito del conclave (ri)programmatico, l’11 e 12 gennaio prossimi? Scalfari enumera alcuni punti programmatici irrinunciabili:
Liberalizzare alcuni mercati sensibili. Con prudenza.
Rimettere in moto la riforma Dini delle pensioni.
Accentuare la mobilità del lavoro dipendente creando nel frattempo una rete adeguata di ammortizzatori sociali.Varare la legge sui diritti dei conviventi di fatto (non si è mai parlato di Pacs e chi fa uso di questo termine sia opportunamente dissuaso). Varare una buona legge sul testamento biologico e sull’accanimento terapeutico.
Difendere la laicità delle istituzioni senza eccessi di radicalismo ma senza cedimenti intollerabili alle pretese della “lobby” della Conferenza episcopale. Rilanciare le opere pubbliche a cominciare dalla Tav. Continuare la lotta contro l’evasione e destinarne il ricavo all’abbattimento delle imposte.
Bene, è pur sempre un programma. I prossimi giorni vedranno il reality check (o il crash test) della maggioranza sulle pensioni. C’è da demolire la riforma Maroni ed il suo scalone, preservando quei 9 miliardi di euro di risparmi che essa garantiva. Come andrà a finire? Come è iniziata. Nel paese dei diritti acquisiti e dei lavori usuranti è sempre più facile tassare che tagliare. Il disamoramento degli italiani e della loro antipolitica potrà attendere. Qui si sta costruendo un paese più serio.