Ma quanti voti spostano, oggi, i radicali? E soprattutto, in che direzione rispetto alla coalizione in cui si trovano: attrattiva o repulsiva? Quanti elettori indecisi voteranno per il Pd veltroniano per effetto dell’accordo con le truppe pannellate? E quanti voteranno altrove proprio a causa della presenza in lista dei radicali? Sarà una deformazione professionale, ma noi tendiamo sempre a valutare azioni e comportamenti in termini di analisi costi-benefici. E in questo caso non riusciamo a capire. Gli ultimi sondaggi accreditano i radicali di circa l’1 per cento delle intenzioni di voto (sondaggio effettuato il 20 febbraio – cioè prima dell’accordo con il Pd- da Crespi Ricerche per conto di Clandestinoweb.com). Partiamo dai benefici: quali vantaggi può trarre il Pd dalla presenza in lista dei radicali?
Si può ipotizzare che Veltroni abbia deciso di acquisire altri voti per vincere in alcuni collegi marginali (cioè incerti) alla Camera o per far pendere dalla propria parte la bilancia della vittoria al Senato in alcune regioni contese. Ovviamente queste sarebbero considerazioni statiche, di pura sommatoria dei voti radicali a quelli del Pd. Ma se i radicali “valgono” effettivamente l’1 per cento dei voti, saremmo legittimati a giungere alla conclusione che Veltroni predica bene e razzola male, cioè che sta facendo un’operazione di pura aggregazione, non realmente dissimile dal coalition building elettorale unionista nella legislatura appena conclusa.
Dei costi per il Pd abbiamo detto: rischio di aumento della conflittualità intra-partitica, abbandono dell’intenzione di voto da parte di chi (magari perché cattolico) considera impossibile votare per un partito che ha in lista esponenti radicali. Ma altre domande si pongono: perché Veltroni accetta singoli esponenti e non il contrassegno radicale, come invece fatto per l’Italia dei Valori di Di Pietro? Qui la risposta ufficiale l’ha fornita lo stesso leader del Pd: perché Idv è destinata a sciogliersi e a confluire nel Pd, dopo le elezioni, mentre i radicali non hanno alcuna intenzione del genere. Ma allora, così stando le cose, perché associare in partecipazione e candidare nelle proprie liste quello che appare un corpo estraneo? Concetto peraltro ribadito dagli stessi radicali, quando reiterano la loro bizzarra tesi sull'”ospitalità” nelle liste Pd, come fatto anche prima delle ultime politiche, con la pantomima delle “consultazioni” parallele con Forza Italia ed Unione: questo o quello per noi pari sono.
Rinunciando al proprio simbolo, i radicali si sono inoltre consegnati al Pd, dal quale otterranno la retrocessione dei rimborsi elettorali percepiti per i propri parlamentari. Siamo certi che l’accordo verrà contrattualizzato, magari presso un notaio, come accaduto anni addietro con Silvio Berlusconi, ma ciò non elimina il dato di fatto: i radicali saranno costantemente sotto la spada di Damocle di interruzione o rallentamento dell’ossigeno finanziario da parte del Pd. Se per i radicali, perennemente sull’orlo del dissesto (malgrado i 10 milioni di euro annui di denaro dei contribuenti ottenuto per Radio Radicale), è comunque preferibile puntare a sopravvivere, resta senza risposta il quesito: quale è l’utilità di questo accordo per Veltroni? Forse aver evitato l’abituale frastuono vittimistico in cui a Torre Argentina sono da sempre insuperati maestri, e la sua più che probabile mediatizzazione. Ma la strada è ancora lunga: mentre mancano ancora i dettagli sulle aree di convergenza programmatica (ma non è bizzarro che qualcuno eletto direttamente in un partito debba negoziare su questo punto?) i radicali già invocano a gran voce (o almeno danno questa impressione) l’inserimento nelle liste di Pannella e D’Elia, mentre Veltroni già puntualizza che per numero di mandati parlamentari e condanne penali “ci sono delle regole”. Quale che sia la motivazione razionale del Pd (if any), l’operazione appare comunque un’involuzione sulla strada del presunto nuovismo veltroniano.