Vorrei ma non posso

I primi passi del governo Berlusconi-quater rappresentano un tentativo di aumentare il “tasso di rendimento” del sistema politico-amministrativo italiano. In altri termini, cercano di aggirare gli ostacoli, i colli di bottiglia ed i formalismi che da sempre impediscono una trasmissione efficace ed efficiente al paese reale della volontà del legislatore. In alcuni casi questa trasmissione imperfetta e parziale è frutto di un sistema barocco di pesi e contrappesi, di eccesso di garantismo (più formale che sostanziale), di poteri di veto di cui dispongono le corporazioni che presidiano gli snodi del canale di trasmissione della legge. Gli esiti di frustrazione per l’impossibilità di vincere l’inerzia procedurale ed amministrativa portano così a tentativi di semplificare drasticamente la catena di comando e controllo, anche aggirando vincoli rigidi come quelli imposti dalla Costituzione.

E’ il caso della gestione della cosiddetta “emergenza” dei rifiuti in Campania. Il governo Berlusconi ha deciso di concentrare le competenze in capo alla figura di un sottosegretario (Guido Bertolaso), ma soprattutto ha stabilito per decreto-legge che le competenze in materia di gestione dei reati ambientali e relativi ai rifiuti vengano accentrate sulla Procura della Repubblica di Napoli. Uno strappo ai principi di giurisdizione che ha condotto alcune decine di magistrati di quella procura a firmare un irrituale documento di pubblico dissenso. Ad essere maliziosi, il dissenso dei magistrati sembra essersi anche tangibilmente esplicitato in una serie di avvisi di garanzia e provvedimenti di custodia cautelare (uno dei quali ha colpito una stretta collaboratrice di Bertolaso) il cui timing appare molto sospetto, considerando che le indagini erano già chiuse da parecchie settimane. Dove si evince inequivocabilmente che la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale rappresenta da sempre la miglior polizza di assicurazione di cui dispone la magistratura contro atti del legislatore considerati sgraditi e/o ostili.

Ma anche il pacchetto di contrasto all’immigrazione clandestina è un esempio da manuale di un’operazione decisionista che rischia di essere priva di denti. Il decreto-legge emanato nei giorni scorsi prevede che la clandestinità divenga aggravante in caso lo straniero commetta reato. Si tratta di un provvedimento che determinerà un aumento di carico di lavoro sulla magistratura, ma che ha un apparente potenziale di deterrenza per i clandestini. Nel disegno di legge all’esame del parlamento, per contro, è previsto tout court il reato di clandestinità, con pene detentive fino a quattro anni. Altra levata di scudi dei magistrati, che ritengono (non a torto) che questa ulteriore fattispecie penale finirà col causare il crollo delle procure, e sarà di fatto ingestibile. La prima risposta del Guardasigilli, Angelino Alfano, è un’analogia piuttosto naif: “dove quel reato esiste, non ha prodotto disfunzioni”. Ma gli altri paesi hanno un sistema giudiziario devastato come il nostro? Alfano poi precisa il proprio pensiero, e afferma che “il reato di clandestinità è un deterrente”.

Concetto ripreso ad una sola voce da governo e maggioranza. Ultimo in ordine di tempo il ministro delle riforme istituzionali, Umberto Bossi: “E’ meglio che il reato di immigrazione clandestina ci sia. Fa muro verso l’esterno.” Sul piano logico nulla da eccepire: l’introduzione di una fattispecie di reato dovrebbe servire ad aumentare il costo-opportunità di determinati comportamenti. Ma la deterrenza è efficace solo se la sanzione è credibile. Se gli uffici giudiziari dovessero essere impossibilitati a gestire le migliaia di processi per immigrazione clandestina a legislazione invariata, la legge finirebbe con l’essere disapplicata, come moltissime altre in un paese cronicamente affetto da amnesia quale è l’Italia. E tanti saluti alla deterrenza. Alfano ed il governo, razionalmente, promettono una complessiva ridefinizione delle procedure giudiziarie “entro l’estate”, per smaltire i carichi di lavoro in eccesso. Finora lo smaltimento dell’arretrato giudiziario è stato quasi sempre delegato ad indulti ed amnistie, vedremo se ci saranno cambiamenti sostanziali e più consoni ad uno stato di diritto. Ma se qualcosa andasse storto, e la situazione rimanesse nello stallo attuale, da facili profeti immaginiamo quello che gli anglosassoni chiamano “finger pointing“, l’additamento alla pubblica esecrazione tra governo e magistratura, che si accuserebbero reciprocamente di aver fatto fallire la riforma. Quando le grida si levano alte, la già ridotta capacità analitica del paese ne esce ulteriormente indebolita, e il tribalismo ideologico finisce col diventare la colonna sonora dell’affondamento del Titanic italiano.

Nel frattempo il governo si accinge a potenziare ruolo e capacità dei Centri di permanenza temporanea, cui saranno destinati per un periodo che potrà arrivare a diciotto mesi i clandestini che non collaboreranno alla propria identificazione. Altro provvedimento (sulla carta) razionale, funzionale a creare un sistema detentivo parallelo proprio per aumentare il costo-opportunità dell’immigrazione clandestina senza gravare sul sistema carcerario del paese, ormai collassato. Anche qui, a naso, occorrerà fare i conti con la costituzione, o meglio con la sua interpretazione.

Ma è tutta la gestione dell’immigrazione a mostrare vistose crepe ed inadeguatezza progettuale della classe politica. Si pensi alla legge Bossi-Fini, che stabilisce il corretto principio che i flussi di immigrazione siano guidati dalle esigenze del mercato del lavoro ma che nulla prevede, ad esempio, per risolvere l’assurda condizione in cui si trovano le badanti che già lavorano nel paese e che sono destinate a restare in clandestinità fino a quando non riescano a vincere la “lotteria del click” indetta annualmente dal ministero dell’Interno, e che ha tempi e modalità di gestione demenziali. Con buona pace del mercato.

Come si nota, il governo sta affrontando (non meno di quelli che lo hanno preceduto, giunti al potere con un forte messaggio riformatore) il tradizionale “reality check“: cambiare il paese o tirare andreottianamente a campare? Spetta a Berlusconi scegliere il modo in cui gestire la propria esistenza: limitarsi ad approvare provvedimenti declamatori, per soddisfare temporaneamente la “pancia” del paese, oppure agire organicamente su legislazione e burocrazia pubblica, magistratura inclusa. Fatte le debite proporzioni, da quel poco finora visto in ambito di politica economica pare che sia stata imboccata con decisione la prima strada, con corbellerie come la Robin Hood Tax, l’intervento sui mutui che non innova alcunché, senza alleviare l’onere per i debitori né accentuare la competizione tra intermediari creditizi, o le misure prevalentemente simboliche su Ici e straordinari. Per tacere delle aberrazioni fin qui compiute nel caso Alitalia, ovviamente. Ma la legislatura è (teoricamente) ancora lunga, ci sarà tempo per fare meglio. Ma anche peggio.

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