Regno Unito, giudizio sospeso sulla “stretta espansiva”

*Post tecnico, ma mai quanto dovrebbe

Ieri è stata pubblicata la prima stima del Pil britannico del primo trimestre, che segnala una crescita dello 0,5 per cento. Tale incremento compensa quasi esattamente la contrazione del quarto trimestre dello scorso anno, che è stata da molti imputata alle tempeste di neve che hanno a lungo bloccato il paese. Quindi, nell’ultimo semestre, il Pil britannico non è praticamente cresciuto. Da qui l’avvio di un dibattito (non inedito, a dire il vero) circa l’efficacia della stretta fiscale. O meglio, circa le proprietà espansive che una stretta fiscale può esercitare nell’attuale contesto macroeconomico.

Per semplificare (e personalizzare, cosa che tanto piace a molti nostri lettori) da un lato abbiamo Paul Krugman, che sostiene che i tagli sono recessivi per definizione oltre che fortemente autolesionistici nel quadro economico attuale, caratterizzato da una situazione di “trappola della liquidità”. Quella di Krugman è una lettura che, banalizzando oltre misura, potremmo definire strettamente “keynesiana”. Dall’altro versante vi sono i sostenitori dell'”expansionary contraction“: l’idea, cioè, che una stretta fiscale possa indurre un’espansione. Tenteremo tra poco di capire la dinamica sottostante a questo ragionamento, per ora analizziamo le motivazioni della “linea Krugman”.

Secondo la quale, come si diceva sopra, una contrazione fiscale è e resta “contractionary“, e più non elucubrare. Alcuni esempi passati di spettacolare ripresa contestuale a strette fiscali, secondo Krugman, sono semplicemente casi di correlazione che non implica causalità. Gli esempi citati dal Nobel di Princeton sono quelli di Canada e Svezia negli anni Novanta. Nel primo caso, il governo canadese attuò una stretta fiscale a cui seguì una forte ripresa. Ma la politica monetaria del paese, che non era in trappola della liquidità, venne allentata per compensare la stretta fiscale, inducendo una desincronizzazione con l’economia americana, che in quel momento era in robusta espansione. Risultato: cambio del dollaro canadese svalutato e mini-boom dell’export. Altro esempio segnalato sempre da Krugman, simile a quello canadese per dinamica e collocazione temporale, è quello dell’austerità svedese, che portò con sé una robusta ripresa. Ma la causalità diretta tra stretta fiscale ed espansione del Pil è inficiata anche in questo caso da un boom delle esportazioni.

Tornando al Regno Unito, una tesi più cauta di quella di Krugman, anche per l’ovvia differente impostazione metodologica, è quella offerta da Tyler Cowen, che parla di prosecuzione della crisi epocale del settore delle costruzioni e non intende dare all’austerità esclusiva colpa della negativa performance economica del paese. Anche perché, sostiene Cowen, finora sono andati a regime solo 9 miliardi di sterline dei tagli annunciati lo scorso ottobre dal Cancelliere dello Scacchiere; a fine aprile scatterà un pacchetto ben più corposo di interventi restrittivi, pari a 41 miliardi di sterline. E’ fin troppo facile obiettare (lo fa Cowen stesso) che un minimo di aspettative razionali può aver fatto il resto, inducendo la frenata, soprattutto nel già terremotato settore delle costruzioni.

Prescindendo dagli effetti compensativi sul cambio di manovre fiscali nei modelli di economia aperta keynesiana, e dal fatto che il moltiplicatore fiscale è praticamente zero quando la banca centrale è impegnata in inflation targeting, Cowen segnala che l’economia britannica soffre di una stagnazione tecnologica ben più seria di quella degli Stati Uniti, anche se ovviamente è assai problematico incolpare di ciò la crescita zero di un semestre.

Resta un punto, a nostro giudizio molto interessante: il livello dei credit default swap britannici è risultato assai poco variato nell’ultimo anno (e prima ancora):  l’annuncio della manovra non ha cioè indotto significativi abbattimenti del rischio paese, come si coglie anche dal livello dei rendimenti di mercato. Questo dovrebbe infatti essere il principale meccanismo di trasmissione degli effetti espansivi di una stretta fiscale, e nel caso britannico manca. Come direbbe Krugman, nel Regno Unito non ci sono bond vigilantes all’opera, cioè i mercati non stanno (ancora) punendo l’indisciplina fiscale del paese. Dettaglio non di poco conto.

Sospendiamo il giudizio, quindi, sperando di aver portato almeno spunti di riflessione che possano evitare i soliti schieramenti da stadio, ed alcune inferenze sciocchine. Perché se due trimestri sono forse pochi per giungere a conclusioni “keynesiane” in un quadro macro complesso come l’attuale, è ancor più ridicolo balzare a conclusioni “antikeynesiane” come fa il petulante austriacante svedese Stefan Karlsson in questo stralunato micro-post, denso di ideologia e fors’anche di qualche birra di troppo.

Regno Unito Credit default swap a 5 anni

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