L’erba spagnola non è più verde della nostra

Il governo spagnolo, dopo aver presentato il bilancio 2012 ed una correzione pari al 2,5 per cento di Pil, incluso uno scudo fiscale tassato al 10 per cento che dovrebbe produrre 2,5 miliardi di euro di gettito, si accinge a svelare alcune grandi riforme, quali quella dei servizi professionali e del commercio, istruzione e, soprattutto, sanità. Dove si nota che le similitudini con l’Italia ante-Monti sono decisamente inquietanti.

In primo luogo, la tipologia dei tagli di spesa: come scrivevamo giorni addietro, colpisce l’entità dei tagli ai ministeri centrali: circa il 17 per cento del budget. Ad un lettore distratto l’ampiezza di questo colpo di scure suggerirebbe due chiavi di lettura: o lo spreco in quest’ambito è sempre stato imponente, oppure l’ampiezza del taglio è del tutto irrealistica, perché portebbe ad un collasso delle strutture interessate. In realtà c’è una terza ipotesi: il taglio interessa pressoché esclusivamente la spesa in conto capitale, cioè quella per investimenti, e non quella corrente, fatta di stipendi e pensioni. Già tagliare le spese in contro capitale è una iattura, perché (in astratto) tende a ridurre la produttività prospettica del paese (ovviamente ipotizzando che tali investimenti non siano solo coperture per il solito stupro dei contribuenti ad opera di criminalità organizzata e della sua succursale in colletto bianco, la politica.

Come che sia, anche noi italiani conosciamo questa tecnica, che piaceva molto non solo a Giulio Tremonti ma anche al padre nobile Romano Prodi. Quindi, il timore è che questo taglio spagnolo sia piuttosto farlocco.

Riguardo invece la razionalizzazione della spesa sanitaria, qui il dibattito è ancora molto arretrato rispetto a noi, visto che si discute se introdurre un ticket o qualcosa legato al reddito degli assistiti. In un caso o nell’altro, le smentite stanno già grandinando, così come prevedibilmente impazza la neolingua che non parla di tagli ma di “razionalizzazione” e di “nuovo modello sanitario”. Per il momento, si registra qualcosa che assomiglia molto ad una sconfessione del superministro dell’Economia di Rajoy, Luis de Guindos, e pure per mano dello stesso partito di governo. Cosa vi ricorda, tutto questo?

Il problema vero è che le autonomie locali spagnole vivono in regime di finanza pubblica largamente derivata, cioè ricevono trasferimenti dal governo di Madrid, e questo alimenta spinte centrifughe e scarsa responsabilizzazione nelle dinamiche di spesa. Dal modo in cui la Spagna gestirà il controllo di questi costi, noi italiani potremmo avere da imparare. Ad esempio, siamo certi che la via sia quella del federalismo fiscale o non, piuttosto, quella della centralizzazione degli acquisti e quindi della soppressione di ogni autonomia locale? Si, lo sappiamo: il federalismo fiscale vero non è nulla di paragonabile alla cosiddetta autonomia di gui godono le regioni spagnole. Ma siamo in guerra, e pare che di tempo per elaborare soluzioni di decentramento fiscale efficace ed efficiente non ce ne sia. E quindi, come finirà? Non lo sappiamo, ma avremmo una mezza idea su tagli ai trasferimenti locali, dopo di che ciascuno si arrangi con ticket e addizionali. Anche qui, notate una certa aria di famiglia?

Comunque vadano le cose, non esiste motivo per entusiasmarsi per i cosiddetti tagli di spesa spagnoli. Si tratta di una voce eterea dietro la quale si nascondono, come detto, ipotesi irrealistiche oppure furbate autolesionistiche, a spesa corrente largamente invariata. Suggeriremmo quindi ai commentatori italiani di non sbandierare i tagli spagnoli e di conseguenza di non erigere Madrid a modello a cui ispirarsi: è già accaduto in passato, sappiamo come è finita. E qualcuno deve ancora spiegarci, fuori di moralismo, il perché del drammatico e sistematico fallimento tra preventivi e consuntivi di finanza pubblica che sta colpendo pressoché tutti i paesi dell’Eurozona, da quando questo tafazzismo fiscale è iniziato. Tutti fannulloni e truffatori? E quanto alle riforme supply side, quella spagnola del mercato del lavoro è un modello (anche di durezza), ma non servirà a nulla, se non a ridurre l’attrito che si frappone alle espulsioni di forza lavoro.

Tutte queste considerazioni non modificano di una virgola la chiave di lettura del quadro generale: in Eurozona è in atto una stretta fiscale inutilmente e tragicamente pro-ciclica, che accomuna le manovre correttive nella efficace definizione anglosassone di self-defeating. Il problema (e l’agognata uscita dalla recessione) non sta nella pretesa e presunta “superiorità” di alcuni mix di correzione fiscale rispetto ad altri ma ancora più a monte, nell’assenza di un controllo e coordinamento comunitario (e centralizzato) delle azioni di politica economica.

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