Ieri l’altro è stata pubblicata una nota di ricerca del Centro Studi Confindustria (CSC), firmata da Alessandro Fontana e dal direttore Luca Paolazzi. In essa si ribadisce che “la flessibilità nelle regole europee su bilanci pubblici è cruciale per il successo delle riforme strutturali. Varata un anno fa, richiede una revisione nella dimensione e nei tempi di rientro. La valutazione dei conti si basa, poi, su stime opinabili dei saldi strutturali”. Argomenti non inediti a sostegno della tesi “vogliamo fare più deficit”, e qualche amnesia selettiva sul come e perché siamo arrivati sin qui, oltre che sulle motivazioni originarie della flessibilità.
In particolare, la nota critica la cosiddetta “clausola delle riforme”. La cui efficacia sarebbe minata, a giudizio del CSC, da “gravi limiti”, tra i quali la dimensione massima allo 0,5% del Pil e la concentrazione in un solo anno,
«[…] che penalizzano quelle riforme che abbiano costi superiori alla soglia e protratti nel tempo; la rapidità del rientro, che impone la riduzione del maggior deficit in tre anni. Diventa così elevato il rischio di azzerare l’efficacia delle riforme stesse, a causa degli effetti recessivi delle manovre necessarie a riassorbire la deviazione consentita dalla clausola»
Ora, dobbiamo cercare di capirci. La clausola della flessibilità in cambio di riforme fa riferimento a riforme che, per la loro natura, producono effetti negativi sull’economia nel breve termine, come ad esempio un aumento della disoccupazione. Quella è la sua genesi: sorreggere gli stabilizzatori fiscali automatici, sommandosi ad essi. Bisognerebbe quindi preliminarmente chiedersi quali sono le riforme strutturali realizzate dall’Italia negli ultimi due anni tali da aver provocato aumento della disoccupazione e riduzione del reddito. Di certo, a questa categoria non appartiene la riforma costituzionale con eliminazione del bicameralismo perfetto. Né vi appartiene la riforma della P.A., visto che non risulta che la medesima preveda licenziamenti di massa di dipendenti pubblici. Discorso identico per il Jobs Act.
Quindi continua a non essere chiaro per quale motivo serve aumentare il rapporto deficit-Pil strutturale, cioè corretto per il ciclo economico. Soprattutto in questo 2016, che era previsto come anno di massima espansione dell’ultimo decennio. Il CSC non spiega né ha spiegato a settembre, quando ha visto la luce la Nota di aggiornamento al DEF, per quale motivo l’Italia doveva sentirsi autorizzata a fare una manovra prociclica di finanza pubblica. Questa ci pare la seconda amnesia, dopo quella relativa ai motivi che giustificano la flessibilità di bilancio a seguito di “riforme strutturali”. Per chiarire ulteriormente, sarebbe servita più flessibilità, e non certo per un solo anno, a fronte di una riforma della contrattazione collettiva di lavoro spostata interamente in azienda, e/o a fronte dell’estensione del Jobs Act e della eliminazione dell’articolo 18 all’intera popolazione lavorativa italiana.
Il CSC ha pienamente ragione circa il nonsenso di una clausola di flessibilità per riforme limitata ad un solo anno ma “scorda”, oltre ad una corretta definizione e valutazione d’impatto delle “riforme”, di fornire un giudizio sulla qualità del deficit fatto da Renzi nei suoi due anni di governo. Come ci siamo domandati, è buon deficit quello degli 80 euro e della decontribuzione temporanea delle nuove assunzioni che lascia del tutto irrisolto il tema della riduzione strutturale del costo del lavoro? Oppure il bonus una tantum ai diciottenni? Ecco, a noi sarebbe piaciuto che Paolazzi & C. fornissero una valutazione anche di questo aspetto, tutt’altro che marginale. Oppure anche una valutazione d’impatto dell’eliminazione delle imposte sulla prima casa. Si tratta davvero di un toccasana sull’attività del settore delle costruzioni o sui consumi delle famiglie? Quei soldi (quel deficit) potevano essere spesi meglio, forse?
Poi, poiché non siamo usciti dall’uovo di Pasqua, comprendiamo che forse Confindustria ha limiti di esercizio alla propria critica ed analisi, dovuti alla presenza di misure quali la riduzione Irap, il superammortamento al 140% (che tuttavia “prende a prestito” domanda dal futuro, e quindi alla fine presenterà il conto) e la promessa di calo Ires per il prossimo anno. O magari, se proprio fossero fortemente miopi, apprezzano anche gli ottomila euro annui per tre anni di sussidio pubblico alle nuove assunzioni, “ché del doman non vi è certezza”. Ma forse, quando si è centro studi, serve più coraggio ed un barlume di terzietà, come ricordare che Renzi sta disperatamente tentando di disinnescare quelle stesse clausole di salvaguardia che egli stesso ha messo nei conti pubblici. O forse a noi manca il realismo, chissà. Il problema è che il realismo che circola in alcuni ambienti italiani è tossico-nocivo per il futuro del paese.
Ultimo punto, la reiterazione della critica metodologica al modo in cui la Commissione europea stima il nostro Pil potenziale, e che “comporta disavanzi strutturali molto più elevati rispetto a quanto calcolato da FMI e OCSE, richiedendo, quindi, aggiustamenti di bilancio più consistenti”. Questo è un punto che carsicamente riemerge nella dialettica tra Italia e Commissione Ue. Non è un caso che torni oggi, quando il governo Renzi sta tentando di trovare motivazioni per ottenere una quindicina di miliardi di euro di deficit in più per il 2017, per coprire i buchi delle clausole di salvaguardia.
Sul Pil potenziale una ulteriore riflessione sul merito avrebbe senso, magari evitando di fare i soliti italiani azzeccagarbugli che invocano cambi di regole nel momento del bisogno. Può essere vero che il nostro paese è penalizzato da modelli econometrici che ci assegnano una crescita potenziale troppo bassa e di conseguenza un “buco di prodotto” (output gap) molto più piccolo di quanto immaginato. Tuttavia, se ci volgiamo indietro con lo sguardo, alla performance economica del paese negli anni pre-crisi, il sospetto “empirico” ed epidermico che la crescita potenziale del nostro Pil sia e resti assai poca cosa, si fa certezza. Su tutto, la cartina al tornasole suprema: il calo del rapporto debito-Pil. Se non avviene, e se non avviene ora che le condizioni sono molto favorevoli, quando mai potrà avvenire? Perché il deficit di oggi è il debito di domani, e non servono economisti per capirlo.
A noi italiani da sempre ci frega la “veduta corta”. Anche quando la rimproveriamo ai nostri interlocutori.