Ingegneria finanziaria per disperati, edizione Poste italiane

Nella continua, disperata ricerca di portare a casa alcuni spiccioli per ridurre di un atomo il peso del debito pubblico, il governo italiano pro tempore è tornato a valutare la cessione di un’ulteriore tranche di Poste italiane. Questa insistenza nel farsi del male e fare cassa sul nulla è davvero ammirevole, e rappresenta la vera costante di tutti i governi della Repubblica succedutisi negli ultimi anni.

Sulle cosiddette “privatizzazioni”, che poi sono pure cessioni di quote di minoranza di imprese pubbliche che operano in regime ibrido, cioè monopolio legale e concorrenza, abbiamo già detto alla nausea, soprattutto di Poste. Tra vincoli di servizio universale di recapito e l’abnorme polmone di bancassicurazione e risparmio gestito, che serve ad estrarre ricche e non sempre giustificate commissioni dal popolo bue dei risparmiatori, la società guidata da Francesco Caio è riuscita a barcamenarsi, anche grazie ad un marketing furbetto che ha fatto esplodere i costi di spedizione in regime di “libero mercato” ed alla consegna a giorni alterni della corrispondenza, con l’esito di allungare in modalità terzomondista i tempi di recapito. A differenza di quanto accade nei paesi con i quali ci confrontiamo, dove invece tali tempi vengono continuamente tagliati. Ma siamo in Italia, abbiamo delle peculiarità, che diamine. Mai sia che a qualcuno venga in mente di aprire i mercati attraverso dismissioni pubbliche. Meglio concentrarsi a contrastare le “scorribande” estere in Italia (sic).

Nelle more del disperato e ricorrente tentativo di fare cassa, ecco che torna l’ideuzza di cedere un’ulteriore quota di Poste. Il problema principale è che si porterebbe a casa il nulla, ma sono dettagli. Il punto vero è che, in seno al partito di maggioranza relativa, è avvenuta una “riflessione” contro il “mercato” brutto e cattivo, ed è cresciuto il numero di “compagni” che sbagliavano e che ora non intendono più “privatizzare” alcunché. Pensate quante virgolette in questo testo: viviamo davvero tempi eccezionali.

E così, come leggiamo oggi sul Sole in un pezzo di Laura Serafini, ecco non uno ma ben due piani per fare ulteriore cassa con Poste senza urtare la ritrovata sensibilità sociale dei compagni del Pd. Nella prima ipotesi, ecco un nuovo coinvolgimento di Cassa Depositi e Prestiti, che dallo scorso anno possiede già il 35% di Poste, acquisito tramite aumento di capitale da 2,9 miliardi di euro riservato al Tesoro, che ha pagato conferendo proprio una quota da esso detenuta in Poste, ed aumentando in tal modo la propria partecipazione al capitale di CDP da 80,1 a 82,8%.

Dopo il collocamento sul mercato di ottobre 2015 (qui i commenti del vostro titolare e di Francesco Caio, in una puntata di Otto e mezzo), il Tesoro è rimasto con una quota in Poste del 29,7%, del valore di mercato di circa 2,5 miliardi, che ora vorrebbe “cedere”, ma senza rinunciare all’imprescindibile controllo pubblico sull’azienda. Perché non sia mai consegnare un’attività così socialmente rilevante (vendita di polizze inclusa) al brutale mercato, come direbbero i resipiscenti compagni del Pd. Basta col liberismo sfrenato. Ed ecco, quindi, la che la perfida finanza può tornare utile.

Il piano A, come segnala oggi il Sole, sarebbe questo: Poste distribuisce un dividendo straordinario, che potrebbe ammontare ad un miliardo “senza intaccarne la solidità patrimoniale”, che CDP incasserebbe ovviamente pro quota. Sommato al dividendo ordinario, CDP potrebbe “autofinanziare” l’acquisto di parte di quel 30% rimasto in mano al Tesoro. Dopo di che, Poste direbbe addio ai suoi piani di espansione, e forse la cosa non sarebbe necessariamente una iattura. Come i più analitici tra voi osserveranno, siamo alla purissima disperazione, per poche centinaia di milioni di euro da destinare a riduzione del debito pubblico.

Eh, ma poi Caio potrebbe segmentare tempi e costi di recapito, e tornare a creare torrenti di free cash flow. Ad esempio, la raccomandata potrebbe costare 6 euro, in regime “base” di recapito universale, dare un contributo alla lotta alla deflazione (peraltro scomparsa), e prevedere tempi di consegna di 20 giorni. Chi volesse il recapito in 1-2 giorni, potrebbe optare per la formula “di mercato” e pagare 20 euro o giù di lì, previe misure anticompetitive da introdurre nel ddl anticoncorrenza. Perché a Poste le risorse per irrobustire il capitale serviranno eccome: quando Poste Vita dovrà riconoscere la svalutazione della quota in Atlante, ad esempio. Questo template di “autocessione” con coinvolgimento di CDP ed estrazione di dividendo straordinario potrebbe tornare utile anche per le ferrovie, hai visto mai?

C’è un piano B, per Poste? Certo che c’è! Collocare il restante 30% “sul mercato” in autunno ma coinvolgere i dipendenti, assegnando loro, in contropartita dell’investimento, una o più poltroncine in cda. Sarebbe il coronamento del pluridecennale sogno della Cisl: passare dalla cogestione di fatto di Poste a quella formale, nella stanza dei bottoni. Alla fine, Delrio e compagni troverebbero lenimento ai propri dolori antimercatisti e placherebbero la loro sete di socialità. Non è meraviglioso, tutto ciò? È la via italiana al socialismo surreale, fatta di strangolamento di tutto quello che assomiglia anche solo lontanamente ad un mercato, oltre che dei consumatori. Sinora ha funzionato perfettamente, rispetto all’obiettivo del fallimento di un intero paese. E, come noto, formula vincente non si cambia.

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