Questa mattina, poco prima dell’alba, il Congresso statunitense ha votato un accordo di bilancio che in due anni aumenterà la spesa pubblica di 320 miliardi di dollari, e per un anno sospenderà il tetto di debito federale, ponendo fine alla seconda serrata del governo federale, scattata alla mezzanotte di Washington. Il problema è che questo è forse il momento peggiore, per mettersi a fare deficit spending in America.
L’esborso è stimato in 320 miliardi in dieci anni, che diventano 418 miliardi con le stime di spesa aggiuntiva per interessi. Nell’accordo, che per qualche ora è stato mandato in stallo dall’ostruzionismo del Repubblicano conservatore fiscale Rand Paul, c’è un po’ di tutto: i Repubblicani ottengono che il tetto alla spesa per la Difesa venga innalzato di 80 miliardi questo anno fiscale, e 85 miliardi il prossimo, cioè dal primo ottobre; i Democratici che le spese non legate al Pentagono, tra cui la lotta contro le dipendenze da oppioidi ed altre iniziative sanitarie di comunità aumentino di 63 e 68 miliardi di dollari. Ci sono anche 90 miliardi per la gestione delle conseguenze delle calamità naturali che hanno colpito alcuni stati.
Tra le coperture parziali della nuova spesa c’è il prelievo e la vendita di 100 milioni di barili di greggio dalla riserva strategica nazionale ed un aumento del contributo per la sicurezza nazionale a carico di dogane ed aeroporti. Nella misura omnibus c’è anche la proroga di alcuni micro crediti d’imposta. Non si inventa nulla, dopo tutto.
Dove sta il problema? Nel fatto che questi 400 miliardi di dollari sul decennio si sommano ai mille miliardi di maggior deficit della riforma fiscale approvata a fine dicembre, rendendo il quadro fiscale statunitense marcatamente pro-ciclico. In altri termini, con la disoccupazione ai minimi storici, si fa più deficit anziché ridurlo.
Gli Stati Uniti, il prossimo anno, avranno il maggior rapporto deficit-Pil mai raggiunto in condizioni di pieno impiego, stimato tra il 5% e il 7%. Il Tesoro dovrà emettere quantitativi crescenti di titoli pubblici proprio mentre la Federal Reserve sta ritirandosi dal ruolo di compratore marginale. In caso di recessione, il deficit-Pil potrebbe sfuggire ben oltre quel 10% visto al picco della Grande Recessione, nel 2008, alimentando sfiducia nel dollaro e disordine monetario globale.
Ovviamente, se siete tra i piccoli chimici che “ma un paese può stampare tutta la moneta che vuole, non c’è rischio alcuno!”, questo post non vi riguarda. Per tutti gli altri, invece, in questo quadro c’è un problema: se la spinta fiscale in condizioni di pieno impiego dovesse far affiorare in modo evidente pressioni inflazionistiche, la Fed si troverebbe “dietro la curva”, cioè costretta a stringere la politica monetaria ben oltre quanto atteso dai mercati, col rischio di nuovi crolli azionari globali e di dissesti in un quadro in cui il debito privato in questi anni è cresciuto moltissimo.
Con notizie di questo tipo, di solito i mercati prima vendono e poi fanno domande. I Repubblicani, noti custodi del rigore fiscale ma solo quando alla Casa Bianca c’è un Democratico, pestano sull’acceleratore fiscale e quando accadono i casini poi sono all’opposizione oppure propongono tagli al welfare, per colmare le voragini.
Però, tranquilli: se siete orgogliosi compagni alla Naomi Klein, o piccoli replicanti progressisti nostrani alla Gad Lerner, quando i mercati crolleranno per crescita delle retribuzioni, potrete sbertucciare il capitalismo cattivo e attendere i licenziamenti di massa che conseguiranno, per dire che avete ragione; se invece siete stampatori di moneta sovrana, per voi non accadrà assolutamente nulla, lo dice la vostra teoria. L’importante è crederlo, almeno.
I consider myself a deficit dove. I'm comfortable with 3% GDP deficits–and higher in downturns. I don't think deficit reduction should be our top priority.
But, deliberately sending an essentially full employment economy into deficits of 5% to 7% of GDP is nuts.
— Jason Furman (@jasonfurman) February 7, 2018