Venerdì scorso, Confindustria ha presentato alle proprie assise generali, un documento di politica economica che, nelle intenzioni dei proponenti, dovrebbe rappresentare una interlocuzione con la politica, oltre che la letterina a Babbo Natale, il che è lo stesso. Il documento confindustriale è la sintesi di un percorso di “ascolto ed elaborazione maturato nel periodo novembre 2017-febbraio 2018”. Il contenuto non appare particolarmente originale.
Il documento identifica tre missioni da perseguire: mettere al lavoro donne e giovani, innalzandone il tasso di partecipazione alla forza lavoro, toccare una crescita media annua del 2% per i prossimi cinque anni e ridurre nello stesso periodo il rapporto debito-Pil di 20 punti percentuali. Obiettivi non irrealistici, almeno sul piano numerico.
Per perseguire i quali servono tre agenti di cambiamento: imprese, Europa ed istituzioni nazionali. E sin qui, tutto molto lineare. I tre attori agiscono lungo sei direttrici. La prima è “Italia più semplice ed efficiente”, cioè sburocratizzazione ma anche (e questo è molto importante), il perimetro dell’azione del settore pubblico. Torna il termine “perimetro”, che ho segnalato giorni addietro ma in realtà segnalo da anni, circa il quantum di spesa pubblica che vogliamo. Qui la proposta:
«Per tutti i servizi pubblici dove è possibile individuare un corrispettivo (ad esempio: scuola, università, sanità, trasporto pubblico locale), va esteso il principio per cui ognuno dovrebbe essere chiamato a contribuire alla spesa, in proporzione alle proprie capacità. Così facendo, si ottengono due risultati: primo, si generano le risorse per ridurre la pressione fiscale ed eventualmente per semplificare il sistema; secondo, si crea concorrenza spingendo verso maggiore efficienza gestionale e qualità dei servizi all’utenza»
«Ciò è particolarmente vero per la sanità. La crescente domanda di prestazioni, difficilmente compatibile con una stabilizzazione della spesa pubblica, potrebbe comportare negli anni a venire una riduzione della copertura pubblica. Spazi di manovra vanno recuperati nella maggiore efficienza della spesa pubblica, nella compartecipazione alla stessa in un’ottica progressiva, valorizzando il ruolo della sanità complementare per rendere più efficiente la spesa sanitaria privata, contribuendo in tal modo a cogliere appieno le grandi opportunità di crescita e di sviluppo industriale legate alla crescente domanda di salute»
Questo, nel documento confindustriale, vale soprattutto per la sanità. In altra parte del documento si propone di destinare a riduzione delle imposte i risparmi di spesa pubblica derivanti da aumento di compartecipazione nei servizi a corrispettivo. Questo è un tema con cui bisognerà sempre più fare i conti, in un futuro molto prossimo, per motivi soprattutto demografici, anche se alcuni venditori di olio di serpente vi diranno che basta stampare moneta o mettere una bella patrimoniale e tutto si risolverà.
Sul piano delle proposte, Confindustria chiede “all’Europa”
«[…] un piano europeo di investimenti in ricerca, formazione, infrastrutture gestito a livello sovranazionale da finanziare con l’emissione di eurobond, fino ad uno stock del 3 per cento del PIL dell’Eurozona (ovvero con l’aumento consistente delle disponibilità della Banca Europea per gli Investimenti); alternativamente, o in aggiunta, si potrebbe avere una clausola temporanea e straordinaria sugli investimenti nazionali, consistente in una deroga massima di 0,5 punti di PIL l’anno per 2 anni al Patto di Stabilità e Crescita per tutti i paesi dell’Unione Europea con un rapporto deficit/PIL sotto al 3 per cento. Per l’Italia si potrebbe trattare di 18 miliardi di euro»
O gli eurobond oppure una clausola temporanea per un biennio di flessibilità sugli investimenti nazionali. La prima ipotesi è nel libro dei sogni, la seconda è un filo più realizzabile, se cambia il clima in Ue, anche se si tratterebbe di un “second best” non troppo ambizioso, pur col “rinforzino” dell’esclusione delle spese di cofinanziamento nazionale ai fondi europei dai vincoli del Patto di Stabilità e Crescita.
Al settore privato italiano si chiedono invece due cose:
-
L’introduzione di un obbligo all’investimento in asset alternativi almeno del 5-10 per cento per i Fondi pensione e le Casse di previdenza (favorendo anche un processo di consolidamento dei fondi pensione); una ricalibrazione dei requisiti patrimoniali delle compagnie di assicurazione per favorirne gli investimenti in titoli di capitale e debito delle imprese, oltre che in infrastrutture;
-
La costituzione di un fondo di fondi nazionale che investa in fondi immobiliari con un forte legame territoriale, per gestire e valorizzare un mix di immobili ceduti a titolo definitivo e conferiti in gestione dagli enti locali; l’estensione delle agevolazioni previste per i PIR e la possibilità di disinvestire a condizioni predeterminate per i cittadini che investono nei fondi territoriali. Nelle ipotesi, si tratterebbe di valorizzare meno di ¼ del patrimonio pubblico degli enti locali.
Sono strade da percorrere con cautela. Parlare di obbligo anziché facoltà per Fondi pensione e Casse di previdenza è terreno minato. Intanto, se anche vi fosse semplice facoltà (e molte casse e fondi pensione hanno già cambiato i benchmark per cogliere le opportunità), simili investimenti potrebbero anche essere effettuati fuori dai confini nazionali. Se Confindustria vuole imporre una sorta di vincolo di portafoglio domestico ai fondi previdenziali, l’idea è piuttosto balzana oltre che gravida di conseguenze negative. Qualcuno ricorda le pressioni furibonde sulle Casse per investire in Atlante I?
Sulla “valorizzazione” immobiliare pubblica, assistita da un super-PIR, auguri a tutti, nel paese che da sempre fa delle porcate immobiliari la propria cifra stilistica.
Se guardate i numeretti di copertura, potete vedere come sono ripartiti i 250 miliardi di euro di interventi in un quinquennio. Tirando le somme, vedete che “l’Europa” fa la parte del leone con circa 93 miliardi. Che molto difficilmente arriveranno. La spending review ne fa oltre 50 cumulati, la mitologica “lotta all’evasione” ne fa altri 45. La coercizione a investimenti tricolori imposta a Casse e fondi pensione e la “valorizzazione” di immobili pubblici ne fanno altri 38. Alla fine, la voce più realisticamente raggiungibile è quella dell’aumento di compartecipazione alla spesa pubblica per servizi, per 24 miliardi in un quinquennio.
Che dire, quindi? Che si tratta di una “proposta” appena meno irrealistica di quelle dei partiti ma sempre centrata su più deficit, pur se per “investimenti”, ovviamente ad alto impatto moltiplicativo (come usa dire di questi tempi quando si propone più spesa pubblica), anche se scorrendo il documento si nota una pletora di richieste di agevolazioni fiscali. Ma forse quello è il concetto di investimenti, chissà. Come già detto, appare molto pericoloso l’obbligo di investimenti alternativi per Casse e fondi pensione: chi vuole spostarsi su queste tipologie di investimento lo sta già facendo, e senza obbligo di destinazione. Le buone idee verranno comunque colte, e in questo paese ce ne sono ancora, per fortuna. L’impressione è che questo documento confindustriale non resterà nella storia di questo paese.