Futuro e libertà per Giggino il centrista

“Uno non vale uno”, “chi dà soluzioni semplici a problemi complessi non avrà la fiducia dei cittadini”. Con queste due frasi, la seconda delle quali ha una chiusa che è una patetica illusione, che mi hanno ricordato anni di prediche inutili su questi pixel, Luigi Di Maio ha annunciato l’addio all’entità colliquata convenzionalmente nota come M5S.

Troppa la distanza dai suoi ex colleghi e dalla loro cosiddetta leadership, quella dell’avvocato professor Giuseppe Conte, quello delle interlocuzioni insistite e del tentativo tardivo e patetico di rigenerazione populista di un manipolo di personaggi che l’autore manco più lo cercano.

Atlantide atlantista

Il casus belli, uno dei tanti, è stata la richiesta di Conte di mettere fine all’invio di armi in Ucraina, almeno questa era l’originaria intenzione, e scatenare una escalation diplomatica (sic), di quelle che vanno bene nei teatrini televisivi, quelli tutti orientati in una sola direzione, quella dei perseguitati politici sottoposti a maccartismo dei poteri forti e della plutogiudaicocrazia amerikana. Perseguitati che bivaccano davanti alle telecamere per denunciare l’intollerabile torsione e compressione della loro libertà di parola e pensiero. Arcipelago gulag, reloaded.

Ma Conte, notoriamente, è uomo di strenua mediazione. Anzi, è un camaleonte per tutte le stagioni e un jukebox: mettete il gettone e lui ve la racconta. In ciò sorretto dal giornale-partito che a sua volta ha occupato tutti i teatrini tv, perché gli impresari di tali teatrini hanno scoperto la pietra filosofale degli ascolti: mettiamo qualcuno di “divisivo” e “polarizzante”, come dicono quelli con una laurea in lettere o in filosofia che hanno fatto il dottorato in scienza delle comunicazioni a Cuneo, e poi diciamo che a noi interessano “le opinioni” e la “libertà di espressione”.

Nel frattempo, il giornale-partito che ha occupato le televisioni e il cui direttore è convinto di essere Scalfari quando decise di teleguidare De Mita, potrà sbeffeggiare “i giornaloni” dell’establishment marcio e fallito, mentre lui e i suoi colleghi appaiono ormai da anni round the clock anche dallo schermo del microonde. Quanto è bella (e profittevole) la compressione dell’agibilità democratica in un paese di oligarchi falliti, signora mia.

Tornando a Di Maio, evidente è stata la sua evoluzione in questi due ultimi anni o giù di lì. Alla fine, giacca e cravatta gli sono tornate utili e i toni si sono progressivamente smorzati sino a spostarsi verso l’abituale centro che ormai si definisce per reazione alle estreme che, sempre più numerose, si accalcano alle porte del potere, non solo in Italia, salvo essere prese a calci in culo dalla realtà e doversi riorganizzare non prima di aver perso l’immancabile blocchetto neocentrista. Resipiscenza o materiale di risulta?

Gemelli e giravolte

Vi confesso che sono combattuto: tutti hanno diritto ad un “percorso”, soprattutto quelli culturalmente più fragili e anagraficamente acerbi, e le due cose si sommano e potenziano reciprocamente. Dalla sua cameretta alla Farnesina, il giovane Di Maio ha scoperto il mondo e la complessità. Perché, vedete, c’è sempre una complessità da scoprire, su ogni versante. Quanto sono lontani i tempi del populismo con le sue soluzioni semplici a problemi complessi.

Eppure quel populismo è vivo e vegeto, coi suoi teorizzatori della stampa di moneta e quelli che presentano emendamenti per “allineare la pressione fiscale italiana a quella media europea” (e come non averci pensato prima?) senza indicazione delle famigerate e stucchevoli coperture. Ci sono direttori-editori che prosperano, su questa anti-complessità, a conferma che la domanda di mercato per queste cose resta robusta.

Dicevo che sono combattuto su Di Maio. Tutti hanno il diritto di cambiare idea, credo. Tutti hanno il diritto di fare un Erasmus decennale a 15.000 euro al mese a spese dei contribuenti italiani. Tutti hanno questo diritto ma pochi, pochissimi, ce la fanno. Altro che l’uno su mille di quell’inguaribile ottimista di Gianni Morandi. Ma non riesco a rimuovere tutto quello che questa persona ha detto e fatto negli ultimi anni. Pensate ad esempio al cosiddetto programma economico del M5S di questa legislatura, che ho commentato qui. Per quanto possa sforzarmi, non riesco a rimuovere quelle affermazioni e teorizzazioni. Riesco ancora a indignarmi, leggendole.

L’Italia, come noto, è il paese dei gemelli in politica: tesi e antitesi, per loro pari sono. Cercano il centro di gravità putrescente e finiscono col trovarlo. Forse per “percorso” personale, forse per calcolo aritmetico di opportunità. Diciamo che il Di Maio folgorato sulla via di Draghi già prometteva bene quando, incontrando il premier designato, disse che ne aveva ricavato “un’ottima impressione”, bontà sua.

On the road, again

Ieri Di Maio ha detto che lui e i suoi amici si metteranno “in cammino”, partendo dal leggendario “territorio” e dai “sindaci”. Pare Macron travestito da Renzi o forse il contrario. Non male per un politico espressione di una forza nata “dal basso” e che a ogni consultazione amministrativa, praticamente da sempre, prende sonori ceffoni dagli elettori, distratti (Conte dixit) dai “compari” che gli entrano in casa per il caffè chiedendo il voto spicciolo contro gli affanni della quotidianità. Praticamente il voto di scambio del popolo minuto, culmine di ingratitudine per la forza “di opinione” che ha generato i dieci miliardi annui del reddito di cittadinanza.

Eletti dal basso con poche decine di voti messi a mostruosa leva su scala nazionale. Roba da far schiattare d’invidia il conte di Cagliostro. E i sindaci. Anzi, “il” sindaco. Credo quel Beppe Sala che sta infoiando i neo-centristi come mai nessuno prima.

È stato interessante, nel climax verso questa scissione, osservare la posizione di Matteo Salvini, altro morto che cammina ma a cui il suo partito di leninisti osservanti non ha ancora deciso di staccare la spina. Avrebbe potuto giocare di sponda con Conte al grido “vogliamo la pace”, eppure non lo ha fatto. Paura, eh? Ma non parliamo di lui, ora.

Ora l’entità colliquata convenzionalmente nota come M5S dovrà riorganizzarsi e ricomporsi, e sarà un lavoro per funamboli della tassidermia e degli obitori. La loro guida spirituale si è già pronunciata contro i due mandati, il povero Conte media, magari con qualche nuovo espediente tipo radice quadrata del mandato zero. Non escluderei nuove scissioni a breve. Che fare, ora? Mantenere la pochette di lotta e di sussidio o dare l’appoggio esterno e salire sulle barricate tentando l’interlocuzione col popolo incazzato? Lo scopriremo. Permettetemi un bel chissenefrega, nell’attesa.

Accozzaglie nel deserto

Il camposanto largo delle forze progressiste, di sinistra suggestione bettin-piddina, è morto da tempo ma dal terreno affiorano, nel bagliore dei fuochi fatui, mani e piedi che si agitano. A destra, la sora Meloni lancia l’assalto alla leadership e si scazza con i compagni di viaggio, tra uno strepito in trasferta e l’altro. Sono accozzaglie, marciano divisi per marcire uniti in caso prendessero il Palazzo d’Inverno e lo trovassero senza gas né luce.

Ma ora torna la vera accozzaglia, quella al centro. E non ce n’è più per nessuno. Perché l’alfanesimo era ben anteriore ad Angelino. Tra sigle e contrassegni realizzati da creativi impiegati del catasto (impareggiabile quel “Coraggio Italia” che secondo me manca di una virgola esattamente nel mezzo) partono le grandi manovre. Quel centro a me pare un mirino dipinto sulla fronte ma come noto io sono sempre disfattista, da qualunque angolo mi si guardi. Anzi: neo-qualunquista, prego.

Il contrassegno di Di Maio si chiama, se ho ben compreso, “Insieme per il futuro”; pare non sia inedito e direi che questa non è una notizia. Ricorda anche “Futuro e libertà” di Gianfranco Fini, probabilmente perché nato, come allora, da un “che fai, mi cacci?”. A me pare che questo ricorrente riferimento al futuro sia soprattutto un memento: ce lo siamo fottuto, il futuro, cari elettori italiani che da tempo immemore vi assopite per generare mostri e poi vi risvegliate sudati fingendo di non conoscerli. È tutto un cammino, anzi una traversata nel deserto. Salvo scoprire che, alla fine del deserto, c’è il deserto. E aprire una proficua interlocuzione coi miraggi.

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