Esiste uno stile-Repubblica? Certamente si. E’ fatto di vorticose reinterpretazioni della storia (e talvolta della cronaca), superiorità morale ed antropologica, profonda convinzione di essere gli unici legittimi king maker di questo delegittimato paese. Anche le nuove leve e gli enfant prodige di Largo Fochetti si confermano appartenenti a pieno titolo alla genia pedagogica del Fondatore. Prendete l’editoriale di ieri del vicedirettore Massimo Giannini sul “caso Telecom”, ad esempio. Infarcito di dotte citazioni di storia politica italiana, ed impegnato a sostenere la tesi della legittima ira del premier per non essere stato informato dell’ampiezza della ristrutturazione finanziaria in atto, ira tanto più impressionante in quanto proveniente da un uomo che ha fatto di mitezza e bonomia la cifra della propria azione politica. E così, ecco Giannini snocciolare le motivazioni alla base della censura del comportamento dell’intrepido capitano di ventura Marco Tronchetti Provera.
“C’è un problema di trasparenza dei rapporti, che chiama in causa la politica e dunque lo Stato. Il gruppo Telecom è stato privatizzato (male) ormai quasi dieci anni fa.”
Da chi, Giannini, di grazia? Da chi Telecom fu privatizzata (male, malissimo) dieci anni fa? Coraggio, non sia reticente. I sottintesi sono molto efficaci in letteratura, nel giornalismo servirebbe maggiore descrittività.
“La rete telefonica equivale alla rete dell’energia elettrica o a quella del gas. Sulla rete telefonica transita un servizio pubblico essenziale che lo Stato affida in gestione a privati, attraverso un contratto di concessione. (…) Sul piano giuridico-economico, le reti telefoniche equivalgono alle frequenze televisive. Da questa peculiarità societaria derivano, o dovrebbero derivare, alcune conseguenze. Il gestore della telefonia ha qualche dovere di informazione in più, nei confronti dello Stato.”
Caro Giannini, tutto ciò non le ricorda forse il caso-Autostrade, altro esempio di privatizzazione sghemba? Anche lì sussiste un problema di concessione governativa, giusto?
“Ad ogni passaggio cruciale della sua lunghissima epopea industriale, Gianni Agnelli ha sempre avvertito l’esigenza di informare il governo di turno, prima di annunciare pubblicamente le più importanti svolte del gruppo Fiat, dall’ingresso dei libici all’ultimo intervento delle banche. Tronchetti, che dell’Avvocato è stato giustamente considerato l’erede naturale, in questa occasione non ha mostrato la stessa sensibilità.”
Paragone infelice, caro Giannini. Forse l’Avvocato era così premuroso ad informare il governo di turno perché bisognoso dei sussidi e degli aiuti pubblici, senza i quali la vivacità imprenditoriale e finanziaria di Corso Marconi e (soprattutto) via Filodrammatici non avrebbe potuto dispiegarsi appieno. O forse lei ha nostalgia di quell’epoca?
“Non può essere considerato in salute un gruppo che per la terza volta in cinque anni cambia radicalmente strategia, scorporando telefonia fissa e mobile dopo averla accorpata sulla promessa dell’enorme cash flow generato dai cellulari. Non può essere considerato in salute un gruppo che, a dispetto dell’andamento dei concorrenti esteri, denuncia utili semestrali in calo del 15,7% e soprattutto ha sulle spalle un debito colossale, pari a 41,3 miliardi di euro, che secondo alcuni analisti finanziari potrebbero essere anche molti di più. Non può essere considerato in salute un gruppo che, dopo un’infelice privatizzazione che ha visto avvicendarsi prima la famiglia Agnelli con pochi spiccioli e poi Roberto Colaninno travolto con la cordata dei “capitani coraggiosi”, oggi si regge ancora sul fragile equilibrio di una poderosa “leva finanziaria”, che consente a Tronchetti di controllare l’intera Telecom possedendo poco meno dell’1% del suo capitale.”
Siamo totalmente d’accordo. Difficile insegnare il caso-Telecom nelle business schools come caso di studio di una storia di successo imprenditoriale. Ma è lei stesso, caro Giannini, che ci indica la matrice di tutta questa disarmante vicenda. Lei ricorda, vero? Dapprima la creazione del “nocciolino di controllo”, guidato dalla famiglia Agnelli per interposto manager, quel Gianmario Rossignolo che alcuni investitori di borsa ricordano ancora con un misto di depressione e rabbia. Ennesimo caso di quel “capitalismo da debito” che rappresenta la causa e l’effetto della fragilità strutturale dell’economia italiana. Dopo l’Ifil, al timone di Telecom arrivò un solido ragioniere mantovano, Roberto Colaninno, già top manager di una società di componentistica auto del gruppo di Carlo De Benedetti, coadiuvato da un brillante finanziere bresciano con l’hobby di collezionare auto Ferrari, Emilio “Chicco” Gnutti. A loro si affiancò il gotha del sistema creditizio italiano, e venne creato un nuovo sistema piramidale di controllo azionario. Operazione attivamente sponsorizzata da quella che fu definita la “merchant bank di Palazzo Chigi”, il cui inquilino all’epoca era Massimo D’Alema. Ma i debiti pesano, ed anche il multilevel di purissima razza padana iniziò ad ondeggiare sinistramente. Colaninno e Gnutti alla fine gettarono la spugna, e riuscirono ad uscire con una cospicua plusvalenza da una partita molto più grande di loro, in tutti i sensi. Toccò quindi all’ex genero di Leopoldo Pirelli, che costruì a sua volta una matrioska azionaria, perché l’ambizione è tanta, ma i mezzi propri scarseggiano. I problemi emersero quasi subito: i dividendi della gallina dalle uova d’oro, Tim, impiegavano troppo tempo a giungere al vertice della piramide, ove risiedeva l’indebitatissima Olimpia. Che fare? Accorciare la catena di controllo, fondere Tim in Telecom Italia, sponsorizzare pensosi convegni dove futurologi e tecnologi spiegano al colto ed all’inclita che la sopravvivenza del genere umano risiede nella convergenza fisso-mobile. A due anni di distanza, e di fronte al costante deterioramento della redditività di Telecom, ecco il contrordine: allungare di nuovo la catena azionaria. Mossa che a noi appare come il disperato tentativo di un tonno di liberarsi dalla rete in cui si è impigliato.
Formalmente, ad oggi il destino di Tim non è stato ancora definito: potrebbe essere ceduta ad un fondo di private equity, o ad un competitor internazionale, oppure potrebbe essere nuovamente collocata in borsa una sua quota di minoranza, alleggerendo con il ricavato lo stock di debito di una Telecom che resterebbe tuttavia ancor più drammaticamente cash-strapped. Come che sia, la lezione è una sola: bambole, non c’è una lira (o meglio, un euro). Oppure, il che è lo stesso, non si possono fare le nozze coi fichi secchi. In Italia non esistono capitali sufficienti per sostenere il peso di uno dei più importanti buyouts della storia finanziaria moderna? Si venda a chi questi capitali possiede. Punto.
Angustiato anche dalla sola ipotesi dell’arrivo di Murdoch o, soprattutto, di Berlusconi come content provider, e stigmatizzando l’ipotesi (cara alla sinistra radicale) di nazionalizzazione della rete fissa con l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, il giovane vicedirettore di Repubblica si scervella ed arrovella senza riuscire a trovare risposte politicamente corrette. A noi sarebbe bastato il riconoscimento che le privatizzazioni della prima era dell’Ulivo sono state quello che sono state: la privatizzazione di monopoli pubblici, un gentile cadeau ai capitani assai poco coraggiosi dei nostri gracilissimi poteri forti, ed ai loro tremuli animal spirits, un enorme danno per i consumatori italiani.
Bizzarro che il demiurgo di quelle finte privatizzazioni, il sostenitore delle trattative private notturne per cedere asset industriali strategici (soprattutto per la classe politica ed il suo potere di ricatto), ora si adonti per una prassi che egli stesso, una decina di anni fa, avrebbe considerato ineccepibile. Quanto a Tronchetti, se questa ricostruzione è vera, abbiamo la prova provata che egli è effettivamente l’erede naturale dell’Avvocato. E questo non è esattamente un complimento.
UPDATE: Benedetto Della Vedova, il ritorno della merchant bank di Palazzo Chigi