Berlusconi e Tremonti: sulle tasse, indietro tutta. Il ’94 è lontano anni luce

di Mario Seminerio – Libertiamo

Ora che ci siamo lasciati alle spalle (molto più rapidamente che in passato) l’ennesima suggestione di una riduzione della pressione fiscale, è opportuno compiere alcune riflessioni su questo tema carsico, che ipnotizza gli italiani da ormai oltre un quindicennio. Il dato ormai acquisito è che questa maggioranza di centrodestra non ha il “coraggio” per procedere alle riforme di cui il paese necessita, preferendo di gran lunga la gestione di una quotidianità fatta di interventi al margine, come quello assolutamente necessitato (nel breve termine) dell’estensione della cassa integrazione, presentati come epocali e determinanti per la sopravvivenza del paese.

Oppure come i grandi annunci, a prevalente contenuto onirico, sulle “Grandi Riforme” che avverranno in un futuro che continua a spostarsi più in là, per motivi che tendono ad essere attribuiti a cause di forza maggiore esterna, oppure ad una “opposizione” proteiforme, identificata di volta in volta con chiunque obietti sulla razionalità e sull’efficacia delle misure adottate dal governo. Il perimetro di questa opposizione è ormai vastissimo, spaziando “dalla Cgil alla Banca d’Italia”, per usare l’espressione usata dal ministro del Lavoro. Banca d’Italia arruolata tra le fila dell'”opposizione” per il solo fatto di aver tentato di delineare, in un paper di ricerca, quale potrebbe essere una definizione di inoccupazione più ampia di quella tradizionale, che presenta molti limiti metodologici, quali il non considerare gli scoraggiati (cioè il tasso di attività) e il numero dei cassintegrati. Sappiamo perfettamente, infatti, che non tutti i lavoratori in cig torneranno al lavoro, men che meno in un quadro congiunturale come l’attuale, dove la profondità della crisi costringerà a profonde e dolorose ristrutturazioni.

In un contesto dove anche la ricerca accademica è accusata di essere diventata espressione di sentimento antinazionale, per usare l’espressione di Ilvo Diamanti, restano assai pochi argomenti suscettibili di essere trattati in un pubblico dibattito. Ipotizzando che il fisco possa essere tra quelli (non è dato sapere fino a quando, però), è utile confrontare le tesi contenute nel Libro Bianco sul fisco del 1994, elaborato da Giulio Tremonti, con l’attuale mainstream della maggioranza. Diciamo subito che il Libro Bianco era un modello a cui ispirarsi, per modernità e razionalità delle scelte. Lo spostamento della tassazione dalle persone alle cose, la riduzione della pendenza della curva delle aliquote, la drastica semplificazione del numero dei tributi sono tutti capisaldi di una strategia offertista che abbiamo sempre condiviso e che perseguiamo politicamente. Quello che è accaduto negli anni successivi, al comune sentire ed all’estensore di quel Libro Bianco, sarà valutato dai posteri, ma per parte nostra possiamo già trarre alcune inferenze e valutazioni.

In primo luogo, nel corso degli anni il dibattito sul fisco è degenerato, nel centrodestra, da grande visione riformista a intervento spot ed incoerentemente populista. L’esempio palmare è quello della soppressione dell’Ici sulla prima casa. Un’imposta che doveva essere riconvertita in uno dei pilastri del federalismo fiscale prossimo venturo, responsabilizzando i comuni (ai quali doveva essere attribuita anche la gestione del catasto). Invece si è scelta la scorciatoia della sua eliminazione tout court, a furor di campagna elettorale. Può non piacere, ma il fisco non è fatto solo di imposte personali sul reddito, ma anche di imposte sulla proprietà e sul patrimonio. E’ così in tutti i paesi con i quali ci confrontiamo. Abolendo l’Ici sulla prima casa si è compiuta un’operazione regressiva, si è aumentata la dipendenza della finanza locale da trasferimenti compensativi dal centro, cioè il suo carattere “derivato”, e in sintesi si sono violati i principi contenuti nel Libro Bianco del 1994.

L’Italia, comparativamente agli altri paesi Ocse, presenta una maggiore aliquota media di tassazione del lavoro (cioè l’incidenza di imposte dirette e contributi sociali rispetto al reddito da lavoro dipendente così come misurato in contabilità nazionale), una tassazione d’impresa lievemente superiore alla media europea (per aliquota nominale) ed una tassazione delle attività finanziarie dei residenti inferiore. Questi sono i caratteri persistenti del nostro sistema fiscale, queste le aree sulle quali occorre intervenire, soprattutto quella sul lavoro. Nulla di tutto ciò è stato fatto, dal 1994 ad oggi. O meglio, per essere più equi, dal 2001 (anno di vero inizio di governi di legislatura del centrodestra) ad oggi.

Oggi Tremonti parla della necessità di studiare attentamente in quali aree intervenire, per evitare di fare “macelleria sociale”. Innegabile, ma forse ha già avuto lunghi anni a disposizione per farlo, stando al governo ed all’opposizione. Il punto è che lo stesso Tremonti ha avuto una profonda evoluzione (o meglio, una involuzione) nel corso di questi tre lustri abbondanti. Da liberalizzatore antistatalista a difensore del primato dell’intervento pubblico micro-regolatore, in base alla fallace premessa che “il liberismo ha fallito”. Non è certo il liberismo quello che ha fallito in Occidente in questi anni, quanto il centauro fatto di cattura regolatoria e abdicazione dello stato dal ruolo di regolatore (senza discrezionalità) dell’infrastruttura di mercato. C’è motivo di temere che il Tremonti di oggi, che usa il termine “etica” un numero inquietante di volte, non riscriverebbe più quel Libro Bianco del 1994, preferendo dedicarsi alla scrittura di norme fiscali volte non alla massimizzazione del gettito ed alla minimizzazione delle distorsioni che la tassazione esercita sul mercato, quanto a microgestire l’economia secondo discrezionali giudizi di valore, morale e moralistico, socialmente invasivi. Il tutto moltiplicando le imposte e frenando crescita e gettito.

Ma forse siamo noi a sbagliare. Forse in questo paese, al dunque, la maggioranza degli elettori resta conservatrice dello status quo. Anche per effetto di slogan come quelli sulla “macelleria sociale”, che negli anni sono serviti solo a mummificare l’Italia e a farla scivolare indietro nelle classifiche internazionali di crescita economica. La paura del cambiamento è una potente leva degli orientamenti politici ed elettorali. Forse è questa la ragione del successo bipartisan dei sindacalisti in politica. Sfortunatamente, agli elettori non viene detto che la conservazione dello status quo non è un’opzione realmente praticabile. La storia giudicherà il berlusconismo (ed il tremontismo) soprattutto su questo.

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