Un interessante e largamente condivisibile post di Dino Amenduni rappresenta un’ottima occasione per fare il punto sul movimento degli italici indignati, e sulle sue prospettive. Che a chi scrive paiono del tutto asfittiche per manifesta debolezza delle premesse e delle modalità di declinazione della protesta. Ma mai dire mai.
Nel suo post, Amenduni esprime perplessità già sul bersaglio simbolico prescelto dai contestatori. Perché proprio #okkupiamobankitalia?
Se lo scopo era citare #occupywallstreet, l’obiettivo è stato miseramente fallito. La Borsa americana è un simbolo ed è realmente il centro del mondo finanziario; la sua ‘occupazione’ rappresenta l’interruzione di un processo economico rivelatosi incapace di garantire benessere e di tutelare i diritti dei cittadini. L’occupazione ipotetica della Banca d’Italia, e persino di Piazza Affari (un paragone, nel caso, più sensato) non porterebbe ad alcun risultato.
Verissimo, perfetto. A noi pare che questo hashtag e questo target possa essere stato scelto (provincialismo a parte) in base alla trita narrativa cospirazionistica secondo la quale la Banca d’Italia sarebbe privata. No, ragazzi, la Banca d’Italia non è privata, fatevelo entrare in testa.
E’ altresì vero che le ricette europee per risolvere la crisi di debito, e quella greca in particolare, sono finora miseramente fallite. Forse per mancanza di capacità di comprendere la natura della crisi, che è l’assenza di un meccanismo di integrazione politica ed economica vero, dopo il fallimento della museruola che doveva essere rappresentata dal Patto di Stabilità e Crescita. Caduto il quale, ci siamo trovati con una unione monetaria e crescenti squilibri macroeconomici tra paesi, con aggregati creditizi fuori controllo ed un sistema bancario ormai reso transnazionale ed ipertrofico senza contrappesi regolatori, ed è andata a finire come ora sappiamo. Anzi, a dire il vero non è ancora finita né sappiamo come finirà.
Che la soluzione al problema vada “declinata su scala nazionale” potrebbe essere al contempo vero e fallace. Vero nel senso che non è più possibile continuare con questo “paradigma italiano” fatto di corporativismo asfissiante e di corruzione endemica, che mina alla radice ogni tentativo di rendere virtuosa la macchina della pubblica amministrazione, che dovrebbe essere una delle leve per spingere la produttività totale dei fattori del sistema-paese. Ma è anche fallace perché le risposte nazionali non sono comunque sufficienti. Per nessuno, neppure per gli accigliati tedeschi. A meno che, col termine “risposte nazionali”, si finisca come al solito nella dimensione palingeneticamente onirica caratteristica della sinistra italiana.
E purtroppo di quello si tratta. Perché, come correttamente intuisce Amenduni, i nostri indignados hanno l’acquolina in bocca, davanti all’enorme trofeo di caccia che essi credono si stagli davanti ai loro occhi:
La via italiana alla crisi finanziaria, secondo gli indignati italiani, è il non pagamento del debito (dichiarazione esplicita), e dunque il default (dichiarazione a mezza bocca).
Purtroppo si tratta non di un trofeo di caccia bensì di un tragico miraggio, e Amenduni (che non è esattamente un bieco liberista) non manca di evidenziarlo:
Dichiarare di non voler onorare il debito è a mio avviso l’errore politico più grave commesso dai manifestanti: è stato proprio il mancato rispetto di una regola fondamentale della convivenza umana, il rapporto tra ciò che si dà e ciò che si riceve, ciò che si guadagna e ciò che si spende, a portarci dove siamo. La politica ha comprato consenso rinviando all’infinito il taglio degli sprechi, la riduzione dei costi della politica, lo scioglimento dei potentati, la scadenza degli impegni. Dire: “non paghiamo il debito” equivale a dire “noi siamo come chi ci ha ridotto in questo stato”.
Forse il problema è che ognuno di noi, avendo a vario titolo beneficiato di questo sistema malato che è stato per decenni il collante della coesione sociale di questo paese levantino (spesa pubblica per tutti), non riuscirebbe a vedere come “lotta agli sprechi” dei tagli che colpissero il proprio cortile. Perché ognuno di noi, a vario titolo e misura, ha un cortile che è stato innaffiato e concimato con quelli che oggi definiamo “sprechi”, e che lo sono solo quando colpiscono “gli altri”.
Amenduni prosegue introducendo quella che appare l’ultima fascinazione del pensiero politico della sinistra, l’ossimorico “default pilotato”. Ne scrivono e parlano in molti, in questo periodo. Per tutti citeremmo Loretta Napoleoni, una bella mente che spesso tradisce se stessa nel passaggio dall’analisi alle terapie. Perché non esiste una cosa chiamata “default controllato”. Un default è un evento catastrofico nella vita di un paese, anche se spesso inevitabile. Né possono soccorrerci, in questa fascinazione, i due esempi che vengono ormai citati come un mantra:
Il ‘default pilotato’ è una proposta coraggiosa, che merita perlomeno un confronto. I modelli citati sono ovviamente la virtuosa Islanda e l’altrettanto virtuosa Argentina. In entrambi i casi, è stato il rinnovamento politico a trasformare la crisi in opportunità: un principio che credo sia valido anche oggi e che non richiede il fallimento per essere messo in campo.
Peccato che si tratti di due “modelli” che semplicemente tali non sono. Nel caso dell’Islanda, intanto, si è trattato del rifiuto del pubblico a pagare i debiti di una istituzione finanziaria privata. Cosa che potrebbe anche avere una sua logica. E stiamo comunque parlando di una realtà non sistemica di poche centinaia di migliaia di persone, non di un default sovrano del terzo debitore del pianeta. Nel caso dell’Argentina, cosa ci possa essere stato di “virtuoso” in una scelta forzata ed imposta dalle circostanze di palese e tragica insostenibilità di un currency board al dollaro, sinceramente ci sfugge. Così come sfugge ai proponenti di questo “modello” che l’Argentina aveva una moneta propria (il peso), che è stata quindi sganciata nottetempo dal dollaro (previa chiusura per alcuni giorni del sistema bancario del paese), e non partecipava ad una unione monetaria.
E qualcuno dovrebbe fare una ricerchina per constatare cosa divenne, per lunghi anni dopo il default, la vita degli argentini. O forse basterebbe guardare dove è oggi il Pil pro-capite di quel paese, malgrado la crescita “prodigiosa” post-default, per smettere di guardare a Buenos Aires come all’Eldorado de noantri, in una forma di grottesca deformazione ideologica della realtà e della storia. Il default argentino è stato un atto dovuto, non c’erano semplicemente alternative. Ed il paese ha rimborsato i suoi debiti con l’odiato (dalla sinistra) Fondo Monetario Internazionale. Non esattamente un esempio di ribellione al sistema.
Di questo si accorge anche Amenduni, che chiude il post con una riflessione molto netta ed un richiamo alla realtà:
Quello che i manifestanti dimenticano di enunciare è che il default, dunque l’uscita dall’Euro, rappresenterebbe la perdita immediata del 50-60% del valore della moneta corrente, secondo una ricerca di Ubs e Citigroup di un mese fa. Ci vorrebbe il doppio del denaro per un piatto di pasta, per uno smartphone, per una vacanza, per una visita medica specializzata. Ci vorrebbe il doppio del denaro anche per far sentire la propria voce su Internet. La democrazia, nel suo complesso, avrebbe un costo insostenibile.
È questo quello che vogliono i manifestanti? È questo che vuole l’Italia?
Non siamo certi che sia questo ciò che vuole l’Italia. Probabilmente no. Ma se questo è ciò che vogliono questi cosiddetti indignados (e qualche furbetto dal Palazzo, che tenderà loro la mano), avremo perso l’ennesima occasione per riflettere ad alta voce su quale paese vorremmo, e continueremo ad inseguire ombre. A tutto vantaggio dell’establishment che quotidianamente parassita questo paese ed il suo (il nostro) futuro.