Banche, che fare?

La difficile condizione degli istituti di credito sta contribuendo in modo rilevante all’aggravamento della crisi economica attraverso sensibili restrizioni all’erogazione di prestiti. Ci sono vie di uscita, nel breve e nel medio termine? La risposta breve è no. Quella lunga è qui sotto.

Tutto è cominciato quando in sede europea si è deciso che, in caso di salvataggio sovrano, i privati dovessero necessariamente ed obbligatoriamente partecipare alle perdite dei prestatori. E’ il cosiddetto Private Sector Involvement (PSI), imposto dalla Germania ai pavidi eurocrati ed agli altri capi di stato e di governo, ed avallato nello spazio di una notte anche dall’allora capo della Bce, Jean-Claude Trichet, che si rese protagonista di una clamorosa giravolta. In quell’occasione, sempre su pressione tedesca con avallo di Nicolas Sarkozy, si decise il famoso esercizio della European Banking Authority (EBA), uno stress test delle maggiori banche europee per prescrivere interventi sui mezzi propri tali raggiungere il famoso livello di mezzi propri Core Tier 1 al 9 per cento.

Questo esercizio ignorava crassamente due punti capitali: in primo luogo, che la crisi non derivava esclusivamente da un insufficiente livello di capitalizzazione (che pure era bassa, come vedremo) ma, in misura determinante, da subitanee crisi di liquidità, la perdita di accesso a fonti di finanziamento che costringe la banca a liquidare in fretta e furia (fire sales) il proprio attivo, causando rotture di prezzo al ribasso. Pochi sanno che, quindici giorni prima di saltare, Lehman Brothers aveva un Tier 1 dell’11 per cento. Il secondo punto ignorato è che le banche possono ridurre il proprio grado di indebitamento in due modi: aumentando il capitale o riducendo l’attivo, cioè chiedendo il rimborso di prestiti già erogati e negandone di nuovi. Bel colpo, ragazzi.

Lo stress test dell’EBA fece uscire il genio dalla lampada, malgrado il successivo ripensamento tedesco sul’obbligatorietà di PSI in caso di salvataggi sovrani, con aggiunta di autocritica pubblica di Angela Merkel. I mercati avevano ormai compreso che i paesi dell’Eurozona potevano andare in default e che quindi occorreva applicare uno sconto aggiuntivo ai loro titoli di stato, di cui le banche erano mediamente piene, trascinando anche quest’ultime nel gorgo. Improvvisamente, peraltro, i mercati si resero conto che le banche dell’Eurozona avevano anche rapporti prestiti-depositi altissimi, dell’ordine del 120-140 per cento. Non solo: che spesso gli impieghi non erano finanziati con veri e propri depositi ma con l’indebitamento sull’interbancario, che nel frattempo si era prosciugato causa diffidenza reciproca tra le banche, costringendo la Bce a diventare una sorta di interbancario “artificiale”, cioè frapponendosi tra le banche prenditrici nette e quelle datrici nette di fondi. Nel frattempo le banche avevano già iniziato a chiedere i “rientri” ai clienti, o a ridurre drasticamente le nuove erogazioni di credito.

L’introduzione delle due aste di liquidità straordinaria triennale per opera della Bce (LTRO), giunse in un momento in cui le banche si trovavano con drammatiche riduzioni dei livelli dei depositi, e rischiavano oltretutto di non riuscire a rifinanziare le proprie obbligazioni giunte a scadenza, per mancanza di compratori. Le operazioni di LTRO evitarono quindi un crack di proporzioni apocalittiche. Quanto alla tendenza delle banche a comprare titoli di stato dopo aver soddisfatto le proprie esigenze di rifinanziamento, essa è del tutto fisiologica e risponde ad incentivi razionali: comprare titoli di stato non provoca assorbimento di capitale di vigilanza, mentre i prestiti a famiglie ed imprese si.

Tuttavia, comprare titoli di stato del proprio paese alimentava un circolo vizioso, quello che abbiamo definito il loop banco-sovrano, nel momento in cui i mercati riprendevano a vendere titoli di stato dei paesi deboli, temendone il dissesto. Le banche sono quindi finite in mezzo al guado: stanno cercando di ridurre il proprio grado di indebitamento (leverage) ma così facendo causano credit crunch e mandano a gambe all’aria i propri debitori, circostanza che a sua volta aumenta le sofferenze, che si mangiano utili e capitale. A questo punto, le banche devono essere ricapitalizzate, ma nel peggiore momento possibile, perché i gruppi di controllo non hanno soldi (vedasi il caso delle Fondazioni italiane). Né esistono compratori esteri, che non hanno alcuna intenzione di mettere soldi in contesti in cui il clima macroeconomico è tossico, causa stretta fiscale. Con buona pace di chi pensa che sia sufficiente ricapitalizzare le banche e oplà, la crisi non c’è più. Qualcuno ha detto Spagna?

E quindi, che fare? Se si ritiene che sia prioritario “costringere” le banche a prestare a imprese e famiglie, cioè se si è deciso che il credito debba continuare ad affluire a debitori operanti in un paese sottoposto ad una terrificante stretta fiscale e le cui prospettive di reddito (cioè di rimborso del credito ottenuto) sono eufemisticamente incerte, e se si pensa che il problema siano i gruppi di controllo ed il loro braccino corto, in completa assenza di compratori esteri (punto che i “risolutori logici” tendono ad omettere, di solito), c’è una sola via: nazionalizzare il sistema bancario, come accaduto in Svezia negli anni Novanta. Come dite? Troppo drastico? Forse sì, ma esiste una non marginale probabilità che ciò possa accadere, in un futuro nemmeno troppo lontano. La stessa evoluzione del fondo salvastati ESM, prevista nel Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, prevede che questa entità sovranazionale pubblica divenga azionista delle banche, sia pure dopo che la Bce sia divenuta regolatore unico del credito europeo.

La soluzione, quindi, qui ed ora (dato il contesto congiunturale, le condizioni non floride o di quasi-dissesto delle banche, ed il correlativamente elevatissimo costo del capitale) è la mano pubblica, se si ha fretta che le banche tornino a prestare. Ma poi non ci si lamenti che servono privatizzazioni, mi raccomando. Perché l’economia è la scienza dei tradeoff, anche se il suo recente imbastardimento con la politica tende a pretendere botte piena e moglie ubriaca. Che non a caso è l’acerrimo nemico dei tradeoff, cioè della realtà.

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