In Italia siamo ormai da tempo entrati nella fase in cui la disperazione per la situazione economica e sociale è a livello tale che da più parti si levano proposte miracolose e risolutive, nel più classico schema del “…e vissero tutti felici e contenti”. Una parte di queste “proposte” le abbiamo già identificate in questa lista aperta; ora è tempo di fare un passo in più, ed identificare i fraintendimenti ad esse sottostanti.
Trovare la soluzione semplice, netta e pulita ad un problema è il fisiologico portato delle fasi di maggiore ansia sociale, che sono anche quelle in cui la credulità popolare è a livelli altissimi, e si alimenta di cospirazionismo, scatenando la caccia alle streghe. Nel caso italiano, a queste caratteristiche di base si somma la scarsa o nulla alfabetizzazione economica e numerica (la innumeracy degli anglosassoni), che è quella che consente di vedere (ad esempio) miracolosi risanamenti dei conti pubblici attraverso la tassazione delle “pensioni d’oro”, salvo poi accorgersi che il problema sta tutto nella definizione del concetto di “pensione d’oro”: è quella da almeno 10.000 euro netti al mese? Se così, anche segare questi assegni non produrrebbe gettito rilevante. Ed ecco dunque che si finisce al classico processo di reverse engineering: quello in cui, dato l’obiettivo di risorse da portare a casa, si definiscono “i ricchi”, e si scopre che sono (ancora ad esempio) i pensionati che percepiscono 3.000 euro lordi mensili. Oppure, visto che siamo in modalità bersaglio mobile, anche 3.500. Salvo poi scoprire che anche lì ci sono problemi.
Una variazione sul tema sono le mitologiche “privatizzazioni”. E fa nulla che sinora in giro per il mondo tutto proceda con lentezza esasperante, causa crisi. Persino il Tesoro britannico ancora non riesce a rimettere sul mercato Royal Bank of Scotland, ma di certo noi italiani sapremmo fare meglio. Una volta fatte le privatizzazioni, a tempo di record, possiamo anche ribellarci alla perfida Ue e usare il ricavato non già per ridurre lo stock di debito ma per ridurre le tasse, segnatamente quelle sul lavoro. Come dite, che è impossibile, oltre che vagamente folle? Vi sbagliate, c’è chi è convinto sia possibile, pur se come soluzione-ponte. Dopo di che, che facciamo? Semplice e già sentita: “tagliamo le spese” e “lottiamo contro l’evasione fiscale” (vedi qui sotto), tutto rigorosamente tra virgolette, come si conviene ad uno slogan.
Poi ci sono le soluzioni “istituzionali”, come l’eliminazione delle province: nessuno ha la più pallida idea di quanto sia possibile ricavare da una simile operazione. Verosimilmente poco, a meno di non licenziare tutto il personale delle province medesime, cosa che al momento non pare all’ordine del giorno. Ma non importa: la caccia all’untore è già partita, e di conseguenza bisogna abolire le province, anche a costo di scrivere leggi che non hanno capo né coda, ed andare in televisione a dire che non si ha la più pallida idea dell’ammontare dei risparmi. Che risparmi non saranno. Semmai il contrario, visto che demandare ai comuni le funzioni delle province implicherà tali e tante disfunzioni organizzative in termini di coordinamento, che ci sarà da ridere prima di piangere calde lacrime per l’idiozia appena compiuta, ed in attesa che “qualcuno” proponga di reintrodurre le province medesime, magari chiamandole in modo diverso.
Al filone “istituzionale” appartiene anche la new entry delle chiacchiere politiche very pop del momento. E chi meglio di Matteo Renzi come testimonial? Ed infatti, ecco il sindaco di Firenze esibirsi da Santoro nell’ennesima stima dell’ennesimo proiettile d’argento, che è una versione duepuntozero ed anche piuttosto paracula del populismo: la lotta alla “tecnocrazia”, cioè alla struttura che vanifica i generosi tentativi dei politici di guidare il popolo verso la felicità. E così ecco la proposta renziana:
«Vogliamo dire che abolire il Tar e la giustizia amministrativa, unificando le giurisdizioni, significa recuperare due punti di Pil?»
La frase è very pop, come nel miglior stile renziano. Ma, premesso che Renzi non cita la metodologia che lo ha portato a quantificare tale risparmio (di circa 30 miliardi di euro), quali sarebbero le le “giurisdizioni” da unificare? Forse far confluire la giustizia amministrativa in quella civile, che si trova in condizioni comatose già di suo? Oppure si tratterebbe di fondere Tar e Consiglio di Stato? Ma il secondo agisce (anche e soprattutto) da secondo grado del primo. Senza dimenticare che la giustizia amministrativa serve a proteggere i privati da abusi da parte della pubblica amministrazione. E quindi che facciamo, eliminiamo quella che è una garanzia costituzionale perché sinora non siamo stati capaci di strutturare correttamente la giurisdizione che dovrebbe proteggerla?
In altri termini, vogliamo eliminare, ad esempio, l’interesse legittimo di tipo oppositivo di un privato, e quindi procedere a rullo compressore con espropri e vincoli alla proprietà privata “perché abbiamo fretta”? Qui il proiettile d’argento nasce da disfunzioni, aberrazioni ed enormità nella tutela di fondamentali diritti dei cittadini e causa, a furor di popolo e di aneddotica, la richiesta di sopprimere tale tutela. Certo, si potrebbe obiettare che il sistema è così dissestato che non esiste in realtà tutela alcuna, e quindi tanto vale procedere con l’eutanasia dei diritti dei cittadini, ma questa non sarebbe la risposta di uno stato liberale. Ammesso che questo disgraziato paese di liberale abbia mai avuto qualcosa.
Considerazioni analoghe, nell’eterno pendolo tra forca e garantismo, valgono per il ricchissimo filone della “lotta all’evasione fiscale”, qualunque cosa ciò significhi. Come ben sappiamo, questo è il canovaccio che ci porta dritti filati, in tempi di crisi e mancanza di soldi pubblici e privati, a sospettare di tutto e di tutti e ad invertire l’onere della prova, anche senza giungere agli estremi di alcune note macchiette del teatrino della nostra politica. Quando il pendolo della caccia all’untore è giunto in prossimità del proprio estremo, ecco che inizia la controrivoluzione, guidata da quella stessa classe politica che aveva sino a quel momento aizzato le folle contro i “ladri”. Ed ecco quindi che la caccia alle streghe si volge in direzione opposta, contro l’entità che in realtà doveva essere il giustiziere del “popolo degli onesti”, al grido “pagare tutti, pagare meno”. Improvvisamente, tale “popolo” scopre non tanto di essere vessato quanto di essere in cima alla lista dei sospettati di evasione fiscale. Si giunge quindi alla “Equitalia dal volto umano“, almeno sin quando non ci si accorge che il gettito crolla e quindi che sì, ci sono in giro troppi “parassiti sociali”, e siamo pronti per un altro giro di giostra sotto l’amorevole guida dei soliti giostrai per tutte le stagioni.
C’è poi il filone dei “costi della politica”. Che sarebbe anche un filone molto serio, ad esempio utilizzato per una comparazione internazionale, peraltro tentata e fallita anni addietro. Qui però sorge un problema quantitativo: ridurre i costi “indecenti” di alcune istituzioni produrrebbe risorse poco più che simboliche, certamente insufficienti per i nostri obiettivi di riforme, ad esempio del welfare. Il miglior esempio in questo senso è quello di Roberto Perotti sulla nostra Corte costituzionale. Situazioni di privilegio intollerabile, che potrebbero essere sanate ma producendo risparmi pari a meno di un’unghia del nostro Pil. Si badi: affermare (anzi, constatare) che tali risparmi sarebbero quantitativamente risibili non significa affatto che essi non debbano essere perseguiti. Significa tuttavia qualcosa di più sottile ed assai meno gradevole: significa che questi risparmi sarebbero la legittimazione ed il presupposto “etico” di altri ben più corposi che andrebbero a colpire le classi sociali medie e basse, cioè i grandi numeri. Perché, come affermava quel genio di Ettore Petrolini,
«Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti»
Proiettile d’argento vo cercando, insomma. Ma potrebbe essere un proiettile di metallo assai meno nobile a cercare e trovare la società italiana e la sua economia, in realtà.
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Lettura complementare consigliata: “Abolire tutto, nuova parola d’ordine“, di Luigi Oliveri