La crisi di governo, che in realtà è solo l’ultima incarnazione di una crisi di sistema che perdura da lustri, si trascina col frastuono dei retroscena, il crepitio delle buche delle lettere dei giornali, i tatticismi esasperati ed esasperanti. Il punto da tenere presente è che siamo di fronte solo a una sistemazione di rapporti di forza e posizionamento, in vista delle elezioni del 2023 o prima di tale data, e che nulla di sostanziale cambierà per il paese.
Il canovaccio della rappresentazione ruota attorno alla figura di Giuseppe Conte, l’aspirante premier per tutte le stagioni, grazie a una legislatura che ha prodotto solo paralisi anche e soprattutto per aver premiato il M5S, entità in decomposizione ma che ha segnato la stagione malata del populismo italiano, contaminando anche le altre forze politiche e affiancandosi all’altro populismo del leader pro tempore della Lega, Matteo Salvini, che dovrà a sua volta giungere alla resa dei conti con la realtà, dopo esserle sfuggito in una calda notte di agosto di due anni addietro.
Un Conte per tutte le stagioni?
Il M5S si è trovato, in questa legislatura, beneficiato da numeri tali da risultare determinante nella nascita dei due esecutivi sin qui prodotti. Il ruolo di Conte è stato, di volta in volta, quello del “tecnico di area” (pentastellata) e di soggetto terzo emancipato dalle sigle partitiche, quindi in grado svolgere un ruolo di mediazione. E per svolgerla, l’ha svolta, contando sulla sua cifra antropologica di stile pseudo-democristiano e sulla debolezza estrema del sistema dei partiti.
Giunti al dunque, che poi sarebbe la presunta pioggia di denaro del Recovery Fund (in realtà una autentica maledizione), Conte ha ritenuto di portare agli estremi la sua capacità di mediazione e interdizione, creandosi uno spazio vitale di vasta autonomia dai partiti. Poteva durare, una situazione del genere?
Ovviamente non poteva. E alla prima finestra temporale utile, che francamente non riesco a comprendere quale possa essere, se solo mi guardo intorno, l’equilibrio della maggioranza è stato scosso da Matteo Renzi. Il quale, come sappiamo da molto tempo, è un abile tattico ma un pessimo stratega. Oppure è il genio incompreso dall’elettorato italiano.
Dategli una leva, e vedrete dove ve la metterà
Renzi ha aperto la crisi puntando su una certezza: non si andrà a votare prima della naturale scadenza della legislatura. Possibile e finanche probabile che le cose vadano in questi termini, ma dubito che da ciò possa scaturire un reale miglioramento della situazione italiana.
Obiettivo di Renzi è, da sempre, quello di demolire il Partito democratico, sottoponendolo al trattamento a cui Emmanuel Macron ha sottoposto il Partito socialista francese. Non solo: Renzi pensa di poter sfondare al centro e fare incursioni un filo più a destra, catturando l’elettorato di Forza Italia, partito ormai prossimo all’esaustione biologica ma che esprime una parte potenzialmente non marginale dell’elettorato italiano. Sempre che il centro esista ancora, in questi tempi.
Tutto quello sin qui scritto è la parte per politologi da dopolavoro. La realtà è che il paese si sta decomponendo e che Renzi persegue un disegno morto da anni con la cocciutaggine di chi non ha ancora compreso che il suo tempo è passato e non tornerà.
Il fattore inerzia e le repliche al teatrino
Restano, tuttavia, un paio di elementi di fondo: la fine del M5S e la fisiologica resistenza del parlamento allo scioglimento anticipato. Da qui lo spettacolo miserando di negoziati che si fingono alti e nobili ma che sono di pura redistribuzione di potere, a teorico vantaggio di chi per ora detiene i numeri necessari, e cioè Renzi. Numeri in parlamento ma non nel paese, tra l’altro.
La situazione potrebbe sbloccarsi, si fa per dire, con un Conte Ter in cui Italia Viva aumenti il proprio peso ministeriale e metta le mani su parte della “polpa” nella gestione delle risorse europee. Quello che resta del M5S potrebbe bere l’amaro calice, che poi sarebbe in realtà un classico episodio di coprofagia; oppure si potrebbe giungere a una qualche forma di governo “istituzionale”, o “del presidente”, che poi altro non sarebbe che la certificazione dell’ennesimo fallimento della politica di fronte alla realtà. Questo paese resta il maggior produttore di giochi politici a somma negativa d’Occidente, lo sappiamo.
I falliti eletti incoronano i migliori non eletti
Malgrado ciò, riusciamo anche a leggere inviti alla creazione di un non meglio specificato “governo dei migliori”, che non è chiaro chi sarebbero. Mario Draghi? Ma lui è uno, e i ministri? E comunque, ribadiamolo: una politica che produce “governi dei migliori” anziché governi frutto della volontà popolare, sia pure in modo indiretto e mediato dalla legge elettorale, è una politica di bancarottieri. Civili, prima che economici.
Eppure questa, ormai da decenni, pare essere l’unica sequenza regolare della nostra vita pubblica: cadute drammatiche e ripartenze lentissime, a disegnare la traiettoria del declino. Tra i due atti si pone un “interruttore” della vita pubblica e parlamentare, che di solito è un governo tecnico, istituzionale o ibrido tra i due. Un paese che “vive” di crisi di sistema.
Allo stesso modo, torniamo a leggere di “contratti” tra partiti “condannati” a governare assieme per non finire nello sciacquone delle elezioni. Speriamo ci venga risparmiata la miserabile comparazione con altri paesi e coi loro negoziati di coalizione. L’epoca del “facciamo come” seguito da nome di paese a piacere, è a sua volta il marcatore della malattia italiana. Così nazionalisti eppure così provinciali.
La selezione naturale: i più tossici prevalgono
È quindi forte, in me, la pulsione a chiedere di andare a votare per rimuovere le numerose cellule morte nell’attuale parlamento. Che in realtà più che ammassi di cellule sono interi organi, ma spero di aver reso l’idea. Andare a votare anche per accelerare la resa dei conti tra la sopracitata realtà e la destra salvinista integrata dall’incomprensibile successo del partito di Giorgia Meloni e tutto ciò che tale blocco rappresenta. Cioè l’ennesima, letale illusione.
Sfortunatamente, dopo aver elaborato questo pensiero, mi affiora alla coscienza che questa sarebbe una forma di ecologia delle popolazioni politiche senza l’esito a cui la selezione naturale approda in natura: la sopravvivenza dei più compatibili all’ambiente.
O meglio: se per “ambiente” intendiamo la capacità di produrre eletti che riportino il paese su un sentiero di crescita accettabile ed equilibrato, temo che l’elettorato italiano non riesca, in questo periodo storico, ad assolvere a tale compito. Se, invece, per “ambiente” intendiamo la camera di fumi tossici (il “laboratorio italiano“) di promesse senza fondamento reale con cui l’elettorato ama essere masturbato allora sì, le elezioni effettivamente produrranno “il più forte” e il più “compatibile” con l’ambiente tossico che avvolge questo paese.